Un film epico e potente, una vicenda che è un pugno allo stomaco per la sua crudezza eppure è delicata e a volte tenera, e tutto ciò senza mai mostrare alcunché di neppur minimamente scabroso. Nel contempo è una storia attualissima, dove risalta il tragico paradosso di un perseguitato – zingaro – che si prende rivincite effimere e crudeli senza riuscire a rendersi conto che ciò va a scapito non dei veri persecutori, bensì di altri perseguitati – ebrei – che finiscono per diventare le sue personali “vittime collaterali” in una lotta impari contro una società ingiusta e una guerra scatenata da un pazzo.

Nella civilissima Svizzera, dal 1926 e fino addirittura al 1973, si consumò una sistematica azione di pulizia etnica nei confronti dei bambini di etnia Jenish, zingari svizzeri di lingua tedesca che, sottratti alle famiglie e allevati in collegi o presso altre famiglie, dovevano dimenticare la propria origine e adeguarsi alla cultura considerata ufficiale. Ma per lo più i bambini venivano maltrattati e moltissimi morirono per le precosse, per le fatiche o si suicidarono. Artefice di tale programma, che si macchiò anche di svariati casi di pedofilia, fu la Fondazione “Pro Juventute”, che nel 1973 chiuse il programma rivolto a Bambini di Strada, ma che continua tuttora la propria attività rivolta all’infanzia. Solo nel 2013 il Governo svizzero ammise la propria colpa e offrì risarcimenti.

Il tema non è stato molto divulgato ma, tra chi se ne è occupato negli ultimi anni, voglio ricordare il magnifico film “Dove cadono le ombre”, del 2017, della compianta giovane regista Valentina Pedicini, che si basò sul romanzo e sulla biografia di Mariella Mehr, poetessa jenisch.

Lubo Moser, lo jenisch protagonista e che dà il titolo a questo film, è artista di strada, giocoliere, saltimbanco; è svelto di pensiero, di parola e di mano e a chi lo crede analfabeta ribatte orgogliosamente di aver studiato dai preti cattolici. Nella Svizzera del 1939, circondata dalle truppe della Germania nazista, Lubo è chiamato alle armi. In sua assenza i suoi tre figli vengono requisiti dalla Pro Juventute – come tanti altri Jenisch – e la moglie muore nel tentativo di opporsi. Da quel momento Lubo vive solo per ritrovare i suoi bambini e denunciare quegli atroci soprusi. Per riuscirci non esita ad immedesimarsi nel ruolo di un ricco elegante e seduttore, con il falso nome di Bruno Reiter. Ma una sorte grottesca e perfida favorirà ancora una volta la famigerata “Pro Juventute” e priverà Lubo dell’unico faro di amore, speranza e fiducia rimastogli.

La vicenda è molto liberamente ispirata dal romanzo “Il Seminatore” di Mario Cavatore ed è magnificamente ambientata in borghi stupendi in Alto Adige, Trentino, al Lago d’Orta e Maggiore: luoghi che emanano lo spirito della Storia ma anche quello della miseria e della solitudine e di tanto freddo, quasi da farne percepire una sensazione fisica.

La sapiente sceneggiatura del collaudato duo Giorgio Diritti e Fredo Valla (“Il vento fa il suo giro”; “Volevo nascondermi”, sulla vita del pittore Ligabue), dà alle tre ore di proiezione tempi antichi e pause giuste, evidenzia dettagli importanti per creare attesa, avvolge e coinvolge lo spettatore nella vicenda narrata.
Gli interpreti sono perfetti: dal versatile e intenso Franz Rogowski nel ruolo del protagonista, alla ingenua e impacciata Margherita impersonata dalla non meno efficace Valentina Bellé.

L’altro parere. Leggi anche la recensione di Lubo di Alvise Mainardi dalla Mostra del Cinema di Venezia 2023.