David Fincher per il suo 11° film (dopo Gone Girl del 2014) chiama a raccolta i cinefili di tutto il mondo, li fa accomodare e gli serve da bere intrattenendoli nel mondo del cinema – inteso nella sua complessità culturale, politica, commerciale e sociale – degli anni 30 e 40.

Il 24nne Orson Welles (Tom Burke) da poco si è dedicato al cinema, i produttori – la RKO – gli hanno lasciato carta bianca, può fare un film su qualsiasi argomento; così ha commissionato una sceneggiatura a Herbert J. Mankiewicz (Mank – Gary Oldman), gran bevitore autodistruttivo, outsider, ma soprattutto sceneggiatore di razza indomabile.

Il tempo stringe, Welles deve girare.
Mank, immobilizzato nel letto, con una gamba ingessata che lo rende più acerbo e la voglia di whiskey che affila il suo sarcasmo feroce, sotto stretta sorveglianza di una segretaria dattilografa (Lily Collins), di un’infermiera (Monika Gossman) e di John Houseman (Sam Troughton), socio di Welles nel Mercury Theatre, è al lavoro sulla sceneggiatura di Quarto Potere (Citizen Kane).

Candidato a 9 Premi Oscar, ne vincerà solo uno, quello per la sceneggiatura, i cui crediti erano attribuiti sia Welles che a Mankiewicz; in realtà come svelato in seguito, Mank era l’unico autore (nel 1971 uscì un saggio scritto dal critico cinematografico Pauline Kael intitolato “Raising Kane“).


Mank racconta con fascino e audacia la storia di uno sceneggiatore dal carisma penetrante, distrutto dall’alcolismo, arrabbiato con il sistema, una scheggia contro le ipocrisie dell’industria hollywoodiana che lo considera un fenomeno da baraccone.

Con un flashback dopo l’altro per descrivere il carattere di Mank, il suo rapporto con il cinema, con la moglie moglie (“la povera”) Sarah (Tuppence Middleton), con il magnate della stampa William Randolph Hearst (Charles Dance) e con la sua amante Marion Davies (Amanda Seyfried), con le elezioni governative californiane  del 1934 ( il mondo conservatore di Hollywood retto dal repubblicano Frank Merriam contro il suo avversario socialista Upton Sinclair), e con la dettatura dello script, David Fincher, su sceneggiatura scritta da suo padre, Jack Fincher (giornalista morto nel 2003), una ventina d’anni fa, porta in scena un film tanto ambizioso quanto mai radicato, immerso nel tempo narrato.

Fincher analizza e indaga, gettando uno sguardo sprezzante sulla Hollywood di quegli anni che svende il talento personale a vantaggio suo; un’industria cinematografica che è costata l’anima a Mank, (s)venduta per sopravvivere.

La sontuosa fotografia in bianco e nero di Erik Messerschmidt, i costumi di Trish Summerville la colonna sonora di Trent Reznor and Atticus Ross, il montaggio di Kirk Baxter, la scenografia di Donald Graham Burt e la sublime interpretazione del cast, Oldman su tutti, ne fanno un film stellare nel suo artigianato da vecchia scuola.

Mank ha una grazia tutta sua, arruffata e arguta, che non teme di mettersi in gioco e di giocare.

Mank è un tuffo nella storia del cinema. Erba gatta per cinefili.