Questa drammatica pellicola, in concorso per l’Orso d’Oro alla 73° Berlinale 2023, si svolge nel presente in una non meglio identificata metropoli di cultura anglosassone.

Il giovanottone Ralphie (Jesse Eisenberg) è un taxista di Uber (notare che Uber è uno dei principali sponsor della Berlinale) e sviluppa i suoi bicipiti frequentando assiduamente una palestra maschile. Tuttavia non sono i muscoli che dovrebbe sviluppare, bensì autostima e autocoscienza, che sono per lui ai minimi termini: pur avendo una compagna, Sal (Odessa Young) dalla quale presto avrà un figlio, Ralphie non ha ancora fatto i conti con episodi della sua infanzia, dove ha sviluppato sindromi da abbandono paterno e soprattutto materno. E’ un teorico del cibo sano ma poi di nascosto si ingozza di merendine.

Ciò rende estremamente complicato il rapporto con Sal che, pur non essendo nemmeno lei una privilegiata, si è sforzata di superare i traumi e di voltare pagina.

Le frustrazioni di Ralphie esplodono furiosamente quando incontra una oscura setta di maschilisti radicali e misogini, guidata da “padre” Dan (Adrien Brody), modellata sul tipo delle controverse subculture “incel” (involuntary celibate, “celibe involontario”), create in rete negli anni Novanta, guarda un po’, da una donna.

Questa setta adotta rituali simil – religiosi, iniziazione tramite un marchio a fuoco e autoconfessioni come nei gruppi di alcolisti anonimi. Ma Ralphie capisce presto che la setta è una vera e propria gabbia e che non lo aiuterà.

La notte di Natale nasce il bambini suo e di Sal, (“Ma non volevo fare un film sul Natale”, scherza Trengove in conferenza stampa). Ma Ralphie è ormai allo stremo e così pure Sal. La creatura sarà un altro, ennesimo piccino innocente destinato a disadattamento e abbandono, forse la vittima più commovente di una giornata di mattanza causata dal mancato superamento di una infanzia malfunzionale.

Nel film il regista sudafricano John Trengove (classe 1978) condanna con evidente chiarezza l’opera distruttiva e degenerata di tali sette e tenta nel contempo di offrire un diverso modello di virilità e di paternità (specie con l’immagine finale dell’uomo “materno”) che escluda il bullismo e anche l’indiscriminato uso delle armi. Lascia però un dubbio di latente misoginia, o in qualche modo di voler dire che alla fine è sempre colpa della mamma, quasi che il padre sia poco più che un oggetto d’arredo.