Mayans M.C. – Stagione 1
Nel cominciare un articolo del genere appare quasi scontato riesumare quei nove mesi di grande attesa e incertezza che ci accompagnarono nello iato tra la settima (nonché ultima, nonché meravigliosa) stagione di Sons of Anarchy e l’esordio di The bastard executioner. Poca preparazione, fretta nell’andare subito in onda, errori madornali per un narratore fattosi da sé come Kurt Sutter la cui unica arma è l’esperienza accumulata nel corso degli anni. The bastard executioner fu infatti un colossale fiasco – di pubblico e qualità – nonostante le aspettative, e la genesi di Mayans M.C. sembra averne pesantemente risentito. Lo spin-off della serie che consacrò Sutter come un grande nome del piccolo schermo non poteva che sembrare a questo punto nient’altro che una mera operazione commerciale destinata a farsi odiare o amare per gli stessi stupidi motivi (al pari di ogni singolo spin-off del Sistema Solare), ma l’operazione di recasting e le nuove riprese che ne hanno posposto l’approdo sulla fidata FX già facevano intravedere uno spiraglio di luce.
Il plot
Sutter mette in scena un’altra epopea su Harley e lo fa nella fittizia Santo Padre, lungo il confine californiano. Mai pago del livello di adesione alla realtà, il nostro in fase di scrittura si avvale della collaborazione di Elgin James, musicista di strada ex FSU e “salvato” dal lavoro nel cinema che ha vissuto con la propria gang i territori di confine in prima persona. Il charter in questione è quello santopadrino dei Mayans che abbiamo imparato a conoscere in SoA, i quali si comportano esattamente come facevano prima della morte di Jax Teller, campando di armi e droga. A turbare quest’equilibrio è la situazione del fronte, che non può che vedere i centauri sempre più schiacciati tra un Galindo Cartel in forte ripresa sotto la guida dell’erede designato Miguel (Danny Pino), i ribelli Los Olvidados di Luisa “Adelita” Espina e il Dipartimento di Giustizia guidato da un redivivo Lincoln Potter. Su questo sfondo, il percorso di redenzione di EZ: rimesso in libertà nonostante l’omicidio di un poliziotto dopo aver accettato un’accordo giudiziario, si infiltra nei Mayans approfittando del fratello Angel e grazie alla collaborazione del padre Felipe (l’eterno EJ Olmos) con l’obiettivo di ottenere indietro la vita, la libertà, e anche la vendetta per la madre, uccisa dal cartello insieme al sogno americano e al futuro di tutta la sua famiglia.
La serie
Vendetta, identità, intrecci politici che schiacciano l’individuo e famiglia come luogo d’origine del bene e del male più assoluti: in Mayans M.C. v’è già quanto di buono Sutter ci ha fatto apprezzare in SoA e avrebbe voluto farci apprezzare in The bastard executioner. Dell’ultima serie citata però non v’è nulla fuorché l’attenzione dedicata all’aspetto linguistico (quindi nessuna moglie, nessun cameo, nessun cantautore irlandese), che anzi in questo caso ha ancora più rilevanza perché ha richiami reali e materiali. Difficilmente si sentiranno altre serie TV americane ricorrere così tanto allo spagnolo, onde evitare di abusare della pazienza degli spettatori, ma Mayans M.C. tiene molto al suo iperrealismo linguistico e fa uso indiscriminato di ambedue gli idiomi a seconda della necessità. Quest’attenzione e il fatto che gli episodi abbiamo sempre un doppio titolo in spagnolo e yucatec sposta sin da subito l’attenzione dello spettatore verso la questione identitaria; non tanto di EZ, ma di un’intera regione che deve patire le conseguenze dell’uso tattico che i vari agenti economici e politici fanno di quel territorio di confine: la terra ricerca se stessa, orfana di ogni cultura e storia. In questa sorta di zona franca di sporcizia e malaffare quasi post-apocalittica – a tratti ricorda Mad Max – e senza nessun controllo, i sopravvissuti alle stragi del cartello, gli olvidados (“i dimenticati”) si organizzano divenendo a loro volta un corpo in grado di contrastare Galindo dando vita a una guerriglia urbana senza limiti. Una terra senza padrone alla ricerca della stabilità, ecco cos’è Santo Padre, squassata fino allo stremo dalla situazione quando si aggiunge il Dipartimento di Giustizia con fini non meno loschi, dando il via a una battaglia dei tre regni in salsa messicana.
Nella quarta stagione di Sons of Anarchy abbiamo fatto la conoscenza di Lincoln Potter, un procuratore eccentrico e idealista ma dotato di grande acume che stonava con Charming tanta era la sua incapacità di comunicare con quel mondo, e ora abbiamo modo di rivederlo nella serie in questione: l’eccentricità ormai solo una maschera, il cinismo più duro come nuova filosofia. Ora alla guida del DOJ in loco, fa risaltare le venature politiche della serie. Parallelamente alla solita storia di singoli e sentimenti, Sutter dedica più minuti, anche se sempre indirettamente, alla descrizione del suo nuovo universo, strizzando l’occhio al dibattito sui rapporti USA/Messico su cui abbiamo nuove notizie ogni giorno. Non c’è bisogno di nominare Trump, affatto, basta chiarire che i lavoratori messicani servono per rifornire manodopera dequalificata a basso costo e che il cartello crea meccanismi di trasporto al di là del confine così da compiacere il DOJ, che si occupa della ricchezza del proprio paese prima di tutto e che di conseguenza potrebbe lasciar passare i carichi di droga allo stesso modo per ricambiare il favore; basta chiarire che questa collaborazione andrebbe rafforzata per evitare che gli olvidados inneschino un moto di ritorno di matrice neo-zapatista, pericoloso per gli equilibri economici USA, e che quindi il DOJ potrebbe aiutare il cartello a schiacciarli così da evitare guai per tutti.
Su questo sfondo sì semplicistico non troppo fantapolitico, anzi, a prendersi la scena è la storia di Ezequiel (EZ) e la sua lotta per e contro la sua famiglia. Sutter è sembrato abbastanza incerto per quanto riguarda la gestione della sua trama principale sinora: da un lato concede a essa la maggior parte del minutaggio (piuttosto ampio di suo) e in pochi episodi già delinea le parti e le loro relazioni, imposta solidi spunti per il futuro del prodotto (la figlia di Coco, il passato del padre di EZ e Angel, il ricatto da parte di Potter), dall’altro lesina sulla caratterizzazione dei personaggi facenti parte del charter ricorrendo a espedienti banali e si assicura una certa linea comica (con Chucky in prima linea in un ritorno dettato dal fanservice) e la solita buona dose d’intrattenimento con la premiata ditta botte&botti. Intendiamoci, EZ non riesce a risultare un personaggio particolarmente interessante, non rende il senso di inadeguatezza che dovrebbe provare e l’espediente della vendetta non lo slancia per originalità – anche se la rivelazione finale potrebbe avere esiti interessanti capovolgendo qualche fronte di gioco nella testa dello spettatore. L’amore tormentato e pericoloso perché lei-è-la-moglie-del-boss© aggiunge poco. Insomma, c’è ancora da trovare la quadra per Mayans M.C., tutti i pezzi sono sul tavolo, ora rimane solo da vedere cosa Sutter deciderà di farci: una chiusa, questa, meno scontata di quanto non possa sembrare in un primo momento, data una situazione di partenza tale da poter aprire a tutta una varietà di impostazioni differenti.
Cosa aspettarsi dalla seconda stagione
Appunto, Mayans M.C. è un prodotto che, esattamente come EZ, ancora deve scoprire la dimensione che gli spetta. Sostanzialmente sembra avere le carte da giocarsi per diventare qualcosa che possa affermare la propria autonomia rispetto alla serie madre, dopotutto da quest’ultima prende appena tre personaggi, di cui appena due utili, ovverosia Happy (specie per il cliffhanger finale) e Marcus “el padrino” Alvarez nelle nuove vesti di consigliere e delle frazioni di ambientazione. L’eredità più pesante in effetti riguarda la cifra stilistica impiegata: ritmo rigorosamente omogeneo, montaggi musicali in abbondanza, simbolismi come se piovessero. Sutter non si è mai fatto problemi a spiattellare personaggi profetici e figure precognitive e il suo infinito bestiario allegorico, così in Mayans M.C. va a un passo da tirarceli direttamente in faccia, ma se l’esplicitazione aumenta, diminuisce di contro l’incidenza e la ricorrenza degli stessi. Il quadro simbolico è meno complesso, per farla breve, e tutto sommato bisogna dire che la scelta non stona se calata in questa atmosfera molto dieselpunk.