Mayans M.C. è nato in circostanze particolari e ha avuto sviluppi altrettanto fuori dal canone in seno alla produzione. Dopo il successo di Sons of Anarchy, l’ingombrante personalità all’interno di FX del suo creatore Kurt Sutter era tale da fargli ottenere subito i  finanziamenti per un nuovo progetto (The bastard executioner), a nemmeno dodici mesi da quel 9 dicembre 2014; progetto poi rivelatosi un fiasco totale per motivi piuttosto chiari a chiunque abbia visto anche solo il primo episodio.

Mayans è sostanzialmente la reazione al precedente fallimento, un escamotage per riportare in vita sotto altro nome un prodotto già ampiamente collaudato con il quale andare sul sicuro. Così è stato per una prima stagione lenta, con alti e bassi, che comunque lasciava intravedere qualche spunto intrigante, e per una seconda che purtroppo non ne ha confermato nessuno, attestandosi su un livello ahinoi poco più che mediocre. Ma prima della messa in onda di quest’ultima, il patatrac: Sutter licenziato, con Elgin James promosso a capo della writing room – scrivemmo due righe sul contesto e sulle possibili ripercussioni proprio nell’articolo della stagione due. Non ci volevano dunque l’intuito o la memoria eidetica del protagonista EZ (che a partire da quest’anno poi sono state perse per strada), per capire che le cose sarebbero giocoforza cambiate, avendo perso la stella polare e il padre spirituale del progetto SoA. Più difficile da intuire era la natura gattopardesca di tale cambiamento: si inizia un robusto timeskip e un riassetto dei vari pezzi sullo scacchiere narrativo; e dopo anche anche scrittura, dinamiche, conflitti, gestione dei personaggi e incroci delle storyline subiscono stravolgimenti; stravolgimenti che però alla fine portano Mayans M.C. dall’essere una serie dispersiva e confusa, dal retrogusto vecchio e permeata da un vago senso di incompiutezza, all’essere una serie dispersiva e confusa, dal retrogusto vecchio e permeata da un vago senso di incompiutezza.

Il plot

L’epidemia ha allungato i tempi e la terza stagione è arrivata con un anno di ritardo a causa delle pause forzate che il 2020 ha imposto all’interno mondo di cinema e TV, ma l’allungamento dei tempi tecnici ha concesso una riorganizzazione meno frettolosa. Dopo il parricidio, infatti, l’impressione è quella che si sia voluto dare un taglio deciso con il passato: nessun riferimento a SoA, elisione completa sia dell’eredità della serie madre, sia del suo linguaggio, pertanto simbolismi ed estetica della violenza (ma anche la sigla) volano via dalla finestra dal primo minuto della premiere Pap struggles with the the Death Angel. Ma soprattutto ci troviamo di fronte a uno scenario di partenza decisamente diverso. Il mondo dei nostri motociclisti ora non è più terra di confine – punto narrativamente nevralgico dei primi venti episodi – perché il collegamento tra Messico e California è stato chiuso: in questo nuovo contesto che problematizza maggiormente lo spazio entro cui si svolgono le vicende, EZ ha deciso di andare fino in fondo con il club, sposando la linea di pensiero del get big or die tryin’ che tale scelta comporta, provando a costruirsi una vita a Santo Padre con Gabi, mollando Emily; Adelita viene liberata dalla prigionia del DOJ (orfano di Potter) e lotta con il trauma subito per ritrovare una sua dimensione, sconvolgendo la vita di Angel con un effetto domino; inoltre, venendo meno la principale risorsa per la sussistenza del club, questo inizia a spaccarsi in fazioni trai charter.

La linea narrativa principale riguarda appunto la guerra civile interna ai Mayans scaturita dalla rescissione del legame con il cartello. Il mondo di questa terza stagione è disordinato, ogni pezzo sulla scacchiera deve ritrovare la sua posizione di partenza. In un clima più corale la vera protagonista è l‘instabilità organica.

La serie

La domanda essenziale che si pone lo spettatore quando approccia uno spin-off è sempre la medesima: essa riguarda l’autonomia dell’opera, che può camminare sulle sue gambe e confermarsi autosufficiente, oppure esistere solo in quanto appendice di ciò che la precede, finendo per risultare inutile e talvolta inquinare la valutazione del prodotto originale. Possiamo dire che Mayans M.C., dopo trenta episodi, rientra decisamente nella seconda categoria, e lo fa perché deficitario di un progetto narrativo di fondo. Esemplificativo è proprio l’esito finale nonostante il rumoroso cambio al timone. Mayans cambia, introduce elementi nuovi e ne cassa altri, ma alla fine, sebbene le dinamiche principali si svolgano su tutt’altro piano rispetto alle prime due decine di puntate, tutto ritorna il suo posto. La serie di Sutter prima e James poi gira in cerchio riciclando tanto i fattori che la rendono tutto sommato godibile, quanto i difetti, a lungo andare sempre più evidenti e ridondanti.

Questa è la cifra sostanziale della terza stagione, che, a prescindere dai giudizi di valore che possiamo dare, suscita una sensazione di amarezza nello spettatore, dinanzi a una serie incapace di cambiare ritmo o direzione nonostante il terremoto che ne ha sconquassato le fondamenta. Ed Elgin James ha avuto cura di mettere mano al registro globale di quanto ereditato: la grande novità nella scrittura di questa terza tappa – più formale che effettiva – è l’insistenza sulla coralità. Abbandonati, a ragione, i micro-archi secondari dal vago sapore di riempitivo, ci troviamo di fronte a un imbastimento più orizzontale e meno rarefatto, diviso però attraverso punti di vista diversi. Prima era quasi un male morale mollare EZ per più di cinque minuti di screentime, ora abbiamo una storia portata avanti da un nucleo più esteso di protagonisti: oltre a Ezekiel, assistiamo a una promozione a livello narratologico di Angel e Bishop, ad esempio, ognuno alle prese con una gamma di situazioni più ampia rispetto al MC, per non parlare poi di Coco. L’atmosfera è meno tesa, più spazio dedicato all’elaborazione di sé e all’interiorità di alcuni personaggi (Che “Taza” su tutti), nonché ai giochi di potere e agli intrighi. Su questa faccia di Mayans però pesano le vecchie tare, in primis la scarsa caratterizzazione dei personaggi. L’esito è spesso una perdita di tempo con intermezzi di basso livello e una coerenza interna che spesso viene a mancare nella psicologia dei nostri, come testimonia il quadrilatero da telenovela Adelita-Angel-Nails-Steve. Sul versante opposto invece a cascata vengono rovinati i punti di svolta della serie: l’omosessualità di Taza (elemento potenzialmente carico di significato nel mondo machista dei biker) non ha adeguato foreshadowing e manca totalmente di pathos narrativo, specie per gli scenari che apre. Lo stesso colpo di scena della stagione precedente con lui stesso protagonista (l’omicidio di Riz) svanisce nel nulla, nonostante fosse gravido di conseguenze potenziali.

James pero dà regolarmente prova di non riuscire a stare del tutto dietro a questa complessificazione delle varie storyline, dimostrandocelo ogni volta che tratta la tossicodipendenza di Coco, sparito in un angolo tutto suo della trama principale, con cui però non ha nessun tipo di interazione nonostante il minutaggio. Mayans gira a vuoto, trova due solidi nuclei soltanto nella “guerra dei tre re” che porta all’uccisione di uno e alle ostilità aperte trai rimanenti due, di cui per adesso comunque abbiamo visto solo i prodromi visto che sarà il muro portante della prossima stagione. In breve, dopo trenta episodi, non possiamo non constatare una verità che ambientazione e timbro visivo (diretta eredità di SoA) hanno velato fino a un certo punto: la serie, nonostante i cambiamenti, mantiene un grosso problema di scrittura. Prevedibile, semplicistica, spesso incapace di incrociare tra loro le vicende, compartimentata, e affaticata soprattutto quando si tratta di personaggi femminili, ridotti dicotomicamente ad ancelle del focolare con il sorriso dell’angelo salvifico o femme fatale da discount con carisma di una cassettiera.

Bella ‘sta rivoluzione in Mayans M.C., ma, esattamente, cos’è che è cambiato?

Cosa aspettarsi dalla prossima stagione

Ben poco.

La sensazione finale è stata quella di aver dedicato troppo tempo a una storia come tante altre, inframmezzata da cadute di stile di una certa pesantezza: il teen drama tra EZ e Gabi è quanto di più pacchiano ci si possa aspettare da una serie oggi e la nuova dialettica fra Galindo ed Emily ci ha riservato un nulla di fatto. Insomma Mayans sembra aver definitivamente fallito l’esame di maturità, disperdendosi tra personaggi sottili come un origami, l’assenza di una minima continuità narrativa, e infine l’incapacità di trovare il bandolo della matassa per quanto concerne la linea narrativa principale: insomma, alla domanda “di cosa parla Mayans?” potremmo rispondere in almeno due o tre modi diversi, tutti corretti, ma che nulla c’entrano l’uno con l’altro. E questo è necessariamente un male per una serie, perché senza un obiettivo concreto è difficile attirare l’attenzione dello spettatore, che può tranquillamente pure saltarsi un paio di puntate e perdersi veramente poco o nulla del senso complessivo. Buona solo per chi – come chi scrive, del resto – non ha mai superato la fine di Sons of Anarchy.