1. Maria (Bérénice Béjo) è un’attivista guatemalteca che lotta contro la corrotta dittatura militare. Minacce di morte la costringono a fuggire in Messico, lasciando per sicurezza il piccolo figlio Marco (Matheo Labbé) alla nonna Eugenia (Julieta Egurrola).

    Una decina d’anni dopo, accompagnato dalla nonna cui è stato diagnosticato un tumore all’ultimo stadio, il ragazzino incontra la madre in Messico dove lei ha continuato a lottare sotto copertura per la giustizia, lavorando come correttore di bozze sulla rivista di sinistra, “Proceso“. 
    Maria, che ha sempre rifiutato che il figlio fosse mandato a Cuba, dove crescevano i figli dei dissidenti, continua a cercare un luogo, uno spazio, un tempo dove poter essere madre e attivista.
    Il regista messicano-belga César Díaz esplora l’ambivalenza della Storia e le esperienze personali che si celano dietro al suo secondo lungometraggio di matrice sobria ma di intensa sofferenza umana, personale. Dopo aver vinto la Camera d’Or al Festival di Cannes ne 2019 con Our Mothers, Díaz presenta al Festival di Locarno una storia che torna a raccontare il difficile passato del suo paese legandolo ai ricordi d’infanzia.

  1. “Sono nato nel 1978, durante la guerra civile in Guatemala. Mia madre è stata coinvolta nella lotta contro la dittatura e quando avevo 3 anni è dovuta andare in esilio in Messico. Lo ha fatto per la propria sicurezza, ma anche per portare avanti la lotta. Sono rimasto in Guatemala con mia nonna. Ecco perché non sono mai stato figlio di mia madre. Ero il figlio di mia nonna e vedevo mia madre come un’amica, come una sorella. Non ho mai dubitato del suo amore per me, ma avevo bisogno della sua presenza. Non poteva proprio darmelo.”

Il titolo del film è un riferimento ai Mondiali di Calcio in Messico, episodio storico cruciale, perché a Maria viene chiesto di pubblicare dati e informazioni segrete sulle persone torturate e uccise dal governo guatemalteco invitato alle celebrazioni per Coppa del Mondo del 1986 a Città del Messico. 

  1. Mexico 86, che usa il linguaggio il thriller politico cupo, per raccontare la cronaca (una guerra civile durata più di 30 anni), e quello del dramma famigliare straziante, per esprimere il suo passato personale, ruota intorno a un tema che il regista ha vissuto sulla sua pelle come ci racconta: “Per me realizzare questo film ha significato affrontare la lotta politica e armata portata avanti da mia madre (e da molte altre come lei) per il semplice fatto di essere madre. C’è una profonda contraddizione tra i due: anche se gli attivisti hanno dedicato la loro vita alla trasformazione della società a beneficio dei suoi figli, non c’era più spazio nelle loro vite per adempiere al proprio ruolo di madri o padri”.

    La straordinaria colonna sonora è di Rémi Boubal, la fotografia è di Virginie Surdej.