Arrivato con un certo ritardo anche su Nextflix, Midsommar è il secondo lungometraggio dell’astro nascente Ari Aster, che tornando al genere che ne aveva fatto la fortuna firma un horror conturbantemente cerebrale, quasi scientifico nel suo approccio a metà tra documento e parabola esoterica. Ma la sensazione che il genere gli stia stretto questa volta non si riesce a scacciare.

Sconvolta dall’omicidio-suicidio di sorella e genitori, DaniFlorence Pugh, più che all’altezza del ruolo – non ha altro appiglio emotivo che il fidanzato ChristianJack Reynor –, a sua volta frustrato da quattro anni di relazione altalenante. Gli amici lo consigliano di lasciarla e di unirsi a loro per una vacanza in Svezia, dove avranno la fortuna di poter assistere a un autentico festival di mezza estate ospitati dal collega PelleVilhelm Blomgren. Christian accetta ma per senso morale invita anche Dani, senza immaginare che il loro sarà un viaggio d’addio. In tutti i sensi.

midsommar ari aster

Nonostante il sottotitolo fuorviante affibbiatogli dalla distribuzione nostrana, Midsommar ha poco da spartire con Il villaggio dei dannati di Carpenter o Rilla, e a dirla tutta anche con Il presceltoremake o originale vale lo stesso discorso, affinità di trama a parte – per il tipo di sguardo che adotta: quello di Aster è antropologico e se ne infischia della prassi del climax e dell’empatia verso i personaggi, di cui si prende tranquillamente beffa – guarda caso Christian e il sodale Josh studiano antropologia all’università – non facendo mistero del loro ruolo di mere pedine. È però uno sguardo che, per quanto brevemente considerata la durata complessiva (140 minuti), si fa attendere. Il film che il regista fa pregustare nei primi minuti strizza l’occhio a chi aveva amato Hereditary: l’incedere al ralenti dei pompieri con mdp pedinatrice, colonna sonora e fotografia sembrano suggerire che dalla casa paterna di Dani si svilupperà un’altra riflessione sull’elaborazione del lutto, preferibilmente in interni, preferibilmente mantenendo alta la tensione.

Ma mentre i nostri sono in auto per recarsi al villaggio di Pelle, la cinepresa che li segue si inclina gradualmente arrivando a mantenere i 180 gradi per un’infinita manciata di secondi prima di completare il giro, a segnalare l’inversione – assiologica, culturale, spirituale – del piccolo mondo al contrario che li attende alla fine della strada. Ecco che da qui in poi Midsommar si rivela per quello che è: un film parossisticamente luminoso, en plein air, pulsante di una voglia di vivere in patente contrasto con l’incipit e che risveglia tanto nello spettatore quanto nella povera Dani il desiderio di gettarvisi a capofitto. Desiderio che l’autore asseconda senza preamboli, illustrandoci, con fare molto più accademico dei bisticcianti Christian e Josh, le meraviglie del villaggio di Hårga: ha la sua simbologia e arte figurativa dai tratti ingenui e scandinavizzanti, che collima con la costruzione stereotipa di barbaro; ha una sua tradizione culinaria, artigianale, terapeutica, proprie tecniche di coltivazione; ha, ovviamente, i suoi riti circadiani, stagionali, del ciclo vitale, e un culto sorprendentemente istituzionalizzato – c’è pure un testo sacro – per essere pagano. Ci sono, in sostanza, tutte le condizioni per il funzionamento di una società idilliaca e autosufficiente: utilizzo controllato degli psicotropi, libertà sessuale culturalmente introiettata, programmazione riproduttiva – gli stessi che, con lungimiranza agghiacciante, codificò in letteratura Huxley nel suo Brave New World (1932).

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E il pretesto per tale excursus, se in un primo momento pareva offrirlo il lutto di Dani, giunge presto dalla relazione con Christian, il cui deterioramento procede di pari passo con la serie di scomparse e strani ritrovamenti, neanche a dirlo parte di un disegno più grande che vedrà, come visto in Hereditary, il trionfo del femminile sul maschile con annessa messa alla berlina del patriarcato, e della comunità sul singolo – quanto di più ideologicamente anti-americano possa accadere. Ciò detto, il ritmo cui procedono gli eventi risulta effettivamente troppo dilatato, tanto da far dimenticare in qualche sezione che tipo di film si stia guardando o quali siano le premesse narrative mantenute, con qualche sporadica uscita gore afferente a una sete di sangue cui lo spettatore, una volta capito che cosa veramente interessa al regista, rinuncerebbe di buon grado.

In questo senso, l’autore sembra essere un po’ limitato dal genere prescelto, verso cui cerca a più riprese di pagare il debito: il bambino deforme – altro richiamo a Hereditary nella specie della piccola Charlie – deputato alla stesura della bibbia di Hårga; le morti on-screen che cercano invano di bilanciare quelle off-screen; le allucinazioni a intermittenza della sorella suicida; l’insistito recupero dei simboli per spiegare più chiaramente il disegno perverso dei paesani – un vizio “spiegazionistico” che speravamo l’autore si fosse lasciato alle spalle dopo l’opera prima –, paiono delle forzature nell’economia di un film che non ne ha bisogno per far passare il proprio messaggio, né per mettere i brividi. Per fare un paragone, anche le ossessioni cannibali di Deodato poggiavano sul medesimo rigore e presupposto di indagine antropologica, ma non vi si riscontra mai – nonostante si stia parlando di pellicole dove l’esibizione della violenza è capitale – la necessità di ricordare al pubblico che cosa sta guardando, perché il patto che il documento stringe con quest’ultimo è di per sé già abbastanza solido.

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Nello spazio di un solo film Aster ha avuto un’evoluzione autoriale rapidissima, e il fatto che sia tornato a ragionare in termini di genere ha fatto sì che si imponesse dei paletti che poteva pure permettersi di ignorare: è un limite che nei primi corti gli ha permesso di farsi le ossa, di capire come combinare la sua cifra (il grottesco) ad archetipi narrativi senza scadere nell’imitazione o nello scolasticismo, ma che forse non si addice a un’opera anticonvenzionale come Midsommar, tanto che lui stesso ogni tanto cerca di far mente locale per non uscire dal seminato.

Si tratta però di un errore di valutazione di cui noi stessi siamo colpevoli, quando l’anno scorso riponevamo tutte le aspettative in un nuovo horror di Aster ancor prima che in un nuovo film di Aster.