Primi anni Trenta, non è un gran momento per la democrazia europea e per i diritti umani: se da un lato Hitler sta rafforzando il suo potere, anche in Unione Sovietica l’accentramento di tutte le prerogative politiche nelle mani di Stalin non apporta alla popolazione tutti quei giovamenti strombazzati e promessi dalla retorica “rivoluzionaria”. Il giornalista gallese Gareth Jones ebbe modo di avvicinarsi ad entrami i mondi dittatoriali, in particolare alla persecuzione dei contadini ucraini del 1932-1933.
Agnieszka Holland non è nuova a progetti cinematografici densamente votati a un impegno politico retrospettivo, rivolto sia contro il nazismo (In Darkness) che contro quello che potremmo definire il “falso comunismo” dell’ex-Patto di Varsavia (si veda per lo meno Burning Bush, dedicato a Jan Palach). Questa sua attività non è disgiunta, anzi va di pari passo con il suo impegno extra-artistico: si ricordino i diversi suoi interventi a favore della liberazione del prigioniero politico ucraino Oleg Sencov, ripetutisi anche durante questa 69esima edizione della Berlinale. Non stupisce affatto, dunque, che proprio lei si sia prestata ad un’operazione di ricostruzione (meritevole quanto complessa e ingrata) relativa a uno dei crimini staliniani meno noti e concernenti proprio l’Ucraina.
La premessa storica in casi simili è d’obbligo: approssimativamente nel biennio 1932-33 Stalin diede un giro di vite decisivo all’opera di collettivizzazione forzata che avrebbe dovuto spazzare via qualsiasi rimasuglio di proprietà terriera e gestione agricola indipendente. Ciò si inquadrava all’interno dei primi giganteschi piani quinquennali che avevano come scopo la modernizzazione dell’Unione Sovietica, ma (come ormai pochi avrebbero l’ardire di negare) tale processo di aggiornamento tecnologico e (ri-)costruzione fu portato avanti sulla pelle di milioni di cittadini sovietici che furono utilizzati come manodopera pressoché gratuita negli enormi cantieri che sorsero in tutto lo sterminato paese (la nascita del sistema concentrazionario del Gulag è in parte connessa con la necessità di forza lavoro, oltre che con i fini di smantellamento delle opposizioni). Ciò che è meno noto è che sul fronte specificamente agricolo alcune delle zone maggiormente produttive (e le fruttuosissime “terre nere” dell’Ucraina erano fra queste) furono sottoposte a barbariche pratiche di soppressione di ogni minimo spunto oppositivo al fine della totale requisizione dei prodotti della terra. L’Ucraina non fu, è vero, l’unica zona saccheggiata senza pietà da Mosca al fine di ottenere enormi derrate agricole di scambio per il mercato tecnologico straniero, ma di sicuro fu fra le aree dell’URSS che maggiormente soffrirono delle violenze della collettivizzazione forzata. Non c’è concordia sul numero di contadini ucraini sterminati con la carestia artatamente causata da Stalin e dall’Armata Rossa (si va da un minimo di tre milioni a molti di più, secondo stime più controverse), e questo crimine disumano fu fra quelli che vennero svelati e riconosciuti più tardi dalla storiografia mondiale, essendo a lungo strenuamente secretato dagli organi governativi sovietici. Per avere almeno un’idea di questa tremenda carestia artificiale che gli ucraini chiamano “Holodomor” (più o meno: “sterminio per fame”) si legga in italiano il fondamentale Ucraina. Il genocidio dimenticato 1932-1933 di Ettore Cinnella, mentre sempre in italiano è online https://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/2447-stalin-e-il-genocidio-ucraino di Massimiliano Di Pasquale; i primi classici letterari che vengono in mente sull’argomento sono Tutto scorre di Vasilij Grossman (vi è dedicato un capitolo agghiacciante e rivelatorio) e Il principe giallo di Vasyl Barka, da cui fra l’altro è stato tratto un film molto duro e senza sconti figurativi, Holod 33 di Oles Janchuk (1991).
Fatte queste necessarie premesse, come affronta la questione la regista polacca? Ella si concentra sul versante giornalistico e sull’altissimo tema dell’etica dell’informazione, contrapponendo due posizioni totalmente contrapposte, rappresentate da due personaggi storici, ovvero quelli che per semplificare possiamo indicare come il fiancheggiatore di Stalin che lo aiutò a nascondere il crimine di fronte agli occidentali (Walter Duranty, corrispondente del New York Times da Mosca) e uno dei pochissimi giornalisti che invece riuscirono coraggiosamente a far filtrare le prime notizie sui giornali europei riguardanti l’infausta sorte di milioni di innocenti cittadini sovietici, il gallese Gareth Jones. Ed è proprio a lui che la Holland intitola il film, inquadrando però subito il suo nome in una cornice narrativa e tematica interessante, per quanto non perfettamente riuscita: i crimini staliniani e la loro interpretazione/svelamento in Occidente sono filtrati attraverso il processo di scrittura di Animal Farm da parte di George Orwell. Ricordiamo anche che uno dei protagonisti umani dell’allegoria “antistaliniana” del 1945 si chiama proprio Mr. Jones, personaggio che richiamerebbe l’ultimo zar Nicola II, con tutta la tragicità della sua vicenda storica. Nel film proprio l’incontro fra i due intellettuali britannici viene utilizzato come pivot ideologico dell’agnizione dello stalinismo da parte di certa intelligencija occidentale engagé.
Come si può prevedere, l’affresco storico-ideale che ne viene fuori non è proprio fra i più semplici da districare, e, pur stanti le migliori intenzioni rivelatorie e divulgative della Holland, certa sovrabbondanza di motivi e una prevedibile impreparazione generale dello spettatore medio fanno temere fortemente che le intenzioni autoriali possano sopravvivere integre alla fine della proiezione.
Lo schema costruttivo è quello del miglior cinema divulgativo hollyoodiano (o se vogliamo, data l’esperienza della Holland, della HBO e simili): un personaggio storico reale, investito di qualità eroiche e funzionalmente semplificato/amplificato caratterialmente, viene contrapposto a un villain raffinato e indifendibile, come il falsario di notizie e sostenitore di genocidi Walter Duranty. Sempre secondo questo schema, la vicenda drammatica del protagonista è incardinata in un flusso storico dotato sì di alta verosimiglianza e rafforzato da richiami storici non indifferenti, ma estremamente sfaccettato ed esigente. Non può, ormai lo avrete capito, mancare né l’abbozzo di storia sentimentale, né la ricaduta familiare e generazionale, né tanto meno la preparazione drammaturgica ad ondate successive che si addensa ed esplode nel climax emotivo che deve necessariamente unificare animi e cuori di fronte alla catastrofe umanitaria subita da milioni di incolpevoli contadini, con tanto di bambini derelitti costretti all’antropofagia (tutto, purtroppo, storicamente provato…).
Ma rimane un grosso dubbio: bastano questi addendi di per sé positivi per una sommatoria di successo? Il sovraccarico di dati storici e di personaggi reali può sostenere una retorica fatta di leitmotiv martellanti e un po’ semplificati (i paralleli fra uomini e animali, il grano come “oro di Stalin”, Duranty come viscido maniaco)? L’inquadramento della vicenda all’interno del rapporto con George Orwell era davvero il modo migliore per incorniciare questa massa di eventi dolorosi? Dopo una sola prima visione, ci pare che per quanto interessante e potenzialmente rivelatorio sui rapporti fra intellettuali di sinistra, crimini di Stato e libertà di stampa, l’intreccio fra il giornalista gallese e l’autore di 1984 avrebbe meritato una trattazione a parte.
Quello che sembra mancare è il giusto equilibrio fra ricchezza della ricostruzione fattuale e linearità dell’assunto, tanto che paradossalmente il cuore della faccenda (lo sterminio dei villaggi ucraini) è ridotto a pochi minuti di una rappresentazione da film dell’orrore che poco spiega e mal si incardina sulla linea narrativo-filologica. Dal punto di vista del pubblico si può prevedere un successo eclatante nelle sale della nuova Ucraina filo-europea e anticomunista, mentre probabilmente gli organi ufficiali della Federazione Russa si inventeranno qualche trucco amministrativo per vietarne la distribuzione (si veda il caso di The Death of Stalin); in un uditorio più frastagliato e meno edotto il timore è invece che si esca dalla proiezione con poca chiarezza: sì, Stalin era un mostro, lo sappiamo, ma che cosa è successo davvero in Ucraina nel 1933?
Per chi conosce la triste vicenda, la narrazione risulta succinta, antologica e forse anche troppo schematica, scadendo anche in alcuni semplificazioni antistoriche ad uso e consumo dei non addetti ai lavori (come avrebbe mai potuto, nel pieno corso degli stessi eventi, una contadina ucraina sapere già dei “milioni di vittime” in tutto il paese; era proprio necessario dipingere il già deprecabile falsificatore Walter Duranty come un pervertito sessuale e decadente, giusto per gettare moralisticamente una luce opaca sulla sua figura?). Il risultato è dunque una visione riassuntiva ed enciclopedica che media i fatti narrati al pubblico di massa all’oscuro della vicenda, indulgendo però allo stesso tempo in certe semplificazioni emotive e descrittive che inficiano in parte la meritevolissima attenzione a una “precisione storica di massima”. Non è da escludere poi un tentativo da parte della produzione polacco-ucraina di suggerire attualizzazioni o universalizzazioni inerenti a simili crimini statali e falsità giornalistiche, il che però, ancora una volta, a nostro modesto parere indebolisce la qualità puramente cinematografica del testo.
L’auspicio è che uno spettatore curioso e giustamente scioccato dai fatti storici narrati intraprenda un cammino di ricerca e di studio che gli faccia scoprire questo ulteriore aspetto dei delitti sovietici, un po’ come avvenne per Katyn’ del compianto Andrzej Wajda. Ma il cinema non deve solo educare e spingere alla ricerca storica, può e deve vivere di una propria autonomia artistica e poetica, e temiamo che questo Mr. Jones sia purtroppo un ibrido che rimane a metà fra diverse vie.