Con un anno di ritardo rispetto alla tabella di marcia USA Network ha rilasciato la quarta e ultima stagione di Mr. Robot, dovendo così dire addio al suo prodotto più iconico e conosciuto a livello internazionale, acconsentendo per la seconda volta a un minutaggio maggiore (concesso per la seconda stagione, negato per la terza dopo il calo degli ascolti) per la trasmissione di ben tredici episodi nella finestra invernale che chiudessero definitivamente le due principali linee narrative della serie, da un lato la solitaria rivoluzione di Elliot (Rami Malek), dall’altro il mistero della sua doppia (tripla?) personalità.

Il plot

Il quarto pacchetto di puntate riprende esattamente dal punto in cui si concludeva la quarta stagione, ovvero dalla strana conversazione tra Phillip Price e la ritrovata figlia Angela, ormai mentalmente irrecuperabile e quindi eliminata dal Dark army. Questo è l’incipit che dà vita a quest’ultima stagione, il desiderio di vendetta di Price è l’escamotage che mette in moto l‘ennesimo piano del protagonista e prepara il campo per il confronto finale con Whiterose aka il ministro della PRC Zhang. Parallelamente subentra nella narrazione anche un’ingombrante linea narrativa dallo sguardo più intimo e corredata da un uso massiccio del flashback che riporta alla luce elementi dell’infanzia di Elliot e Darlene che tornerà utile (più o meno) alla fine. L’unico grande sconvolgimento in termini di predisposizione del quadro di partenza rispetto alla stagione precedente è Dominique DiPierro, agente federale sotto il controllo cinese. Per quanto riguarda Tyrell e la sua nuova posizione di CTO della E-corp invece, basta dire che di Tyrell ormai non interessa più a nessuno.

La serie

Mr. Robot si conclude nella maniera opposta rispetto alla quale era iniziato, ma tutto sommato prevedibile se si valutano seconda e terza stagione, e cioè nel più completo disordine, nell’accezione positiva e negativa del termine. Prima di andare a vedere alcuni aspetti più particolari degli episodi del 2019, occorre far notare che a livello strettamente narrativo la serie è andata indebolendosi man mano col passare degli episodi, rivelando un’architettura sempre più fragile, sconnessa e ridondante. Esmail ancora una volta si prende l’onere della direzione di tutte le puntate – con risultati più ordinati rispetto agli anni precedenti in termini di costruzione della tensione, virtuosismi limitati e gestione dei tempi) ma appare più debole in fase di scrittura, per la quale il suo soggetto è stato integrato con i contributi di una writing room più affollata del solito. I primi sei episodi sono francamente deboli: è la stasi a emergere nel momento in cui la serie si limita a riacciuffare il bandolo della matassa e a potare i rami secchi, primo fra tutti proprio Tyrell che non ha più senso di esistere (narrativamente parlando) a cui viene dedicato un episodio totalmente gratuito per toglierlo di mezzo, un filler vero e proprio che interrompe per una settimana la storyline principale per poi riprenderla là dove era stata lasciata senza conseguenze di sorta.

In generale gli espedienti che introducono una seconda parte di stagione già più interessante lasciano intravedere una scarsa programmazione, la cui compensazione è affidata a qualche malriuscito tentativo di ostentare destrezza – l’episodio semi-muto ne è l’esempio più lampante, apparendo a più riprese forzato, schiacciato su una scelta discutibile attuata per arruffianarsi una certa fetta di pubblico. Per farla breve, trentacinque episodi a farci interrogare sullo scopo di Whiterose, la sua idea di nuovo ordine mondiale e il progetto di cancellare il tempo per poi veder arrivare Price che si esibisce in uno spiegone à la Occhi del cuore illustrandoci come uno dei punti interrogativi più complessi di tutta la serie sia stato risolto mettendo assieme un po’ di nozioni estrapolate dal complottismo su Soros. Raffazzonato è dir poco.

La serie prende il via de facto con l’episodio centrale, e forse più interessante nonostante le circostanze che lo permettono sfocino nel ridicolo involontario, in cui abbiamo un primo assaggio di verità sulla reale condizione mentale di Elliot. La puntata, divisa in atti per la gran parte girata con lunghi piani-sequenza a camera fissa in modo da avvicinarla al teatro filmato funziona nel momento in cui riesce a smontare e a ordinare implicitamente, senza cadute di stile come negli anni scorsi, parte di quella serie di elementi che compongono la soluzione finale della serie, esattamente nel modo in cui un episodio risolutivo dovrebbe fare. Da quel momento in avanti le due linee narrative procedono di pari passo fino alla risoluzione della prima (decimo episodio) in un’anticlimax che necessita di una settimana in più per far capire allo spettatore che lì in effetti concludeva la storyline e che quindi pospone una reazione delusa. Superato l’episodio successivo, sul quale vale la pena stendere una velo pietoso, in parte perché è un pausa, una puntata di mero raccordo che non è nemmeno autosufficiente, in parte perché ospita la scena più patetica di tutta la serie (una folle rincorsa tra Darlene e Dominique che neanche la più smielata delle rom-com), si arriva al dittico conclusivo che vede Elliot in una sorta di mondo parallelo che risolve una volta per tutte la situazione dei rapporti tra le personalità, pur a partire da un escamotage ancora una volta dozzinale.

Gli ultimi due episodi funzionano eccome, rivelando una complessità di fondo tale da giustificare la lenta costruzione del conflitto interiore che è stato uno dei pilastri della serie, e ha il coraggio di chiudere il cerchio con l’espediente dell’amico immaginario del primissimo episodio con un colpo di scena che costringe lo spettatore a rivalutarsi come parte integrante di tutta la storia, un inedito nella storia recente della TV. L’atmosfera surreale nella quale sono calate le ultime due ore di Mr. Robot per una volta ne fa dimenticare i difetti esaltandone gli aspetti più peculiari, la rappresentazione di un mondo appesa a un filo e la particolare rabbia a cui dà adito, ovvero la raison d’être di Mr. Robot, decostruendo in parte la serie e riassemblandola con uno slancio di finezza che rappresenta un unicum in questi quasi cinquanta episodi.

In conclusione

Cosa rimarrà di Mr. Robot alla fine? Poco, ci sentiamo di dire, e non perché siamo di fronte a un prodotto frivolo, ma in virtù del fatto che stiamo trattando di una serie che va talmente oltre le sue possibilità che frivola finisce per diventarlo; il soggetto, la costruzione iniziale e gli snodi chiave sono un telaio solido per un’opera che a più riprese è rimasta più volte vittima dei manierismi successivi del suo creatore, dal revanchismo infantile a una sceneggiatura che con il senno di poi appare ampiamente dispersiva, dalla caratterizzazione grottesca dei personaggi secondari (sembrano tutti usciti dalla brutta copia di un film di Tarantino) alle lezioncine morali di nichilismo a buon mercato, dalle semplificazioni eccessive in più ambiti, anche trasversali, fino alla pochezza dal punto di vista organizzativo sul piano della gestione dei personaggi e delle loro funzioni, e su quello delle incongruenza narrative – troppe -, e su quello di una serie che vive di lampi isolati senza consistenza e continuità. Mr. Robot è un prodotto pensato a partire da un costellazione di momenti topici ai quali poi è stato costruito un corpo attorno, fino al punto che, guardando all’indietro, non filtra altro che una serie televisiva esile pur con i suoi bei momenti, che trasmette, smaltito il fascino dell’episodio finale, solo l’idea di fragilità dal punto di vista narrativo e un vago sentore di tempo perso per quanto fa girare il motore a vuoto; Mr. Robot è una serie fumosa.