“P’tit Quinquin” di Bruno Dumont

“Poi mi son reso conto che, nei miei film, la commedia è sempre stata presente là dove c'era la tragedia”

P’tit Quinquin, ufficialmente una miniserie televisiva in quattro puntate ma di fatto un film (tant’è che a Cannes nel 2014 venne presentato come un unicum di circa tre ore e mezza), è a dir poco un violentissimo schiaffo alle aspettative di qualunque spettatore. Il progetto, prodotto da Arte Tv e pensato per una distribuzione televisiva dopo la presentazione al festival francese, ribalta totalmente gli stilemi del regista francese, e “ribaltare” non significa che Bruno Dumont dà vita a qualcosa di completamente diverso, ma che rovescia per davvero tutti gli elementi della sua poetica nel rispettivo equivalente farsesco, operazione che necessitava tanto di autoironia quanto di modestia, fattori che fino a quest’opera erano stati completamenti assenti nel cinema dumontiano.

Quinquin è un ragazzino dodicenne che trascorre le vacanze estive nel villaggio di campagna nel nord della Francia dove vive, andando in bicicletta e facendo scherzi con i petardi assieme ai suoi amici. La storia prende vita, trasformandosi in una surreale e quanto mai dispersiva indagine poliziesca, quando la carcassa di una mucca viene ritrovata all’interno di un bunker della Seconda Guerra Mondiale, e successivamente all’interno dell’animale viene ritrovato il cadavere decapitato di una donna. A questo primo delitto, ne seguiranno altri, le cui modalità saranno sempre più stranianti, e dinanzi ai quali gli abitanti del villaggio avranno le reazioni più illogiche, tanto che lo spettatore è portato ad anteporre gli effetti alle cause, trascinato dalla confusione e dalla completa mancanza di ragionevolezza che a tratti sarà la punta di diamante del film, a tratti solo uno specchietto per le allodole; tuttavia la spiegazione razionale è tutta nelle mani dello spettatore.

“Così ho deciso di tornare sui miei passi, di fare la parodia di me stesso, e sono approdato al tragicomico perché è più pieno, mi consente di toccare in profondità le cose”

Quella parte di critica e pubblico che, dopo aver visto Camille Claudel 1915, ha sostenuto la tesi che quel film fosse un punto di svolta radicale nella carriera del regista francese, non si era di certo sbagliata, anche se nemmeno il più avveduto fan di Dumont avrebbe potuto prevedere un tale cambiamento. Com’è che un regista dalle ispirazioni pasoliniane e che probabilmente è al giorno d’oggi l’unico vero erede del cinema di Bresson, da un film profondamente trascendentale come Hors Satan e dal succitato Camille Claudel 1915 (feroce per come faceva nascere la sofferenza della carne dalla spiritualità) passa a una commedia nera come P’tit Quinquin? Lo stesso Dumont ha ammesso di voler andare oltre il suo stesso cinema, e per farlo gli è servito rovesciarlo, rappresentare anche l’altro lato della medaglia, come se egli criticasse il suo stesso lavoro, girandone una parodia che ne mette in luce quegli elementi che vanno necessariamente presi con grande serietà, perché, a una visione distaccata, potrebbero sembrare ridicoli.

Ma Dumont non ha fatto assolutamente tabula rasa del suo percorso, e P’tit Quinquin non è solo un tentativo di compensare quel punto di vista che nella precedente filmografia del regista è mancato. Anzi, in un certo senso P’tit Quinquin può intendersi come una sorta di prequel (o un “what-if” ambientato qualche anno prima) de La vie de Jesus, il primo film di Dumont. Infatti il senso del film nasce proprio dal più basilare degli interrogativi sulla dicotomia tragedia/commedia: quand’è che dall’una sfocia nell’altra? Dumont quindi sovverte ogni suo stilema al fine di ritrovare il senso del comico, cercando di raggiungere la conclusione opposta di ogni suo altro film. Ma non ci riesce, e sa di non riuscirci fin dall’inizio. Il culmine di questa operazione sarà comunque il cœur du mal che tanto siamo abituati a vedere nei film di questo docente di filosofia ora reinventatosi regista. Non a caso è il primo film di Dumont che ha come protagonisti dei ragazzini. Sono loro a vedere le cose in maniera comica, il male prende la forma di una improbabile scia di omicidi, il cui strumento è un assassino dal modus operandi sconclusionato, guidato da quell’alienazione che sta prendendo piede proprio in quel momento della vita dei protagonisti, anche se forse ci vorranno ancora un paio d’anni prima di riuscire a vederne gli effetti su loro stessi. Di contro però tale alienazione sembra già aver mietuto delle vittime: Aurélie, la sorella maggiore della fidanzatina di Quinquin, che commetterà un gesto estremo; oppure il ragazzino arabo di lei invaghito, che, al grido di “Allah Akbar!” si mette a sparare sulla folla, e viene fronteggiato con incredibile cinismo dall’ispettore incaricato dell’indagine.

“Se ne L’humanité abbiamo tutti i colori dell’umanità, tuttavia si resta nella tragedia. In P’tit Quinquin, invece, c’è la comicità, che fa veramente parte della vita”

Ma l’elemento che più permette quel rovesciamento di cui si è già parlato, sono i personaggi. Dumont ci presenta subito una vastissima gamma di freaks (lo stesso protagonista ha più o meno gli stessi problemi di Freddy ne La vie de Jesus). Essi sono essenzialmente la versione realista dei personaggi propinatici finora da questo autore; a personaggi fortemente simbolici che sfidano il realismo scenico ora si contrappongono i loro corrispettivi legati alla carnalità, è ciò avviene in contrasto con il contesto in cui si trovano (contesto che la regia di Dumont porta comunque su un ulteriore livello di finzione). Questi personaggi, o piuttosto le loro degenerazioni macchiettische, con i loro inspiegabili problemi (l’ispettore con mille tic nervosi che sembra uscito da un film di Charlie Chaplin; il suo sottoposto Carpentier dalle manie filosofeggianti e una strana ossessione per la guida delle automobili su due ruote; Aurélie, ragazza wanna-be famous che canta brani pop ai funerali) rappresentano la manifestazione di un elemento comico che prende piede nelle situazioni in cui meno dovrebbe. Questa stravaganza comica è asservita a uno degli scopi principali del film, ossia quello di creare un fattore surreale al fine di indagare sulla frattura tra dramma e commedia. Si potrebbe affermare che si tratta del suo elemento più strutturale ma al contempo anche di quello più gratuito, il che permette tutte le divagazioni a cui si accennava prima.

Inoltre in P’tit Quinquin si assiste anche all’inversione delle allegorie dumontiane per mezzo di quello che per un regista della sua indole è un peccato capitale: l’autocitazionismo. A partire dall’ispettore di polizia (Van der Weyden) che come l’ispettore de L’humanité (de Winter) porta il nome di un famoso pittore, per finire con Quinquin che tratta la bicicletta così come Freddy trattava il suo motorino ne La vie de Jesus. Allo stesso modo viene sovvertita la motivazione dell’utilizzo di interpreti non professionisti. Qui si fa in modo che possano improvvisare, rivelando così la propria amatorialità, lasciando un’impronta definitiva, come se non ci fosse stata la possibilità di girare la scena una seconda volta. Si ottiene così un sorpendente effetto di naturalezza, con conseguenti grandi probabilità di scatenare nel pubblico una sincera partecipazione. Per il medesimo principio la natura (che dal poetico e tipico paesaggio dumontiano passa alla prosaica verità: le mucche, lo sporco e il puzzo del lavoro di campagna) si allontana dalla visione consueta, e da forza su cui l’uomo può imporsi razionalmente passa a fattore che ad esso si ribella.

Il film è quindi radicalmente sperimentale, pur senza l’arroganza di volersi imporre come tale, grazie al superbo lavoro che Dumont fa alla regia (e nel montaggio, perché il francese ha sempre voluto avere completo controllo sul suo operato). Lo fa lesinando all’inizio con i campi lunghi, per poi cedere alla loro forza man mano che si va avanti: in breve Dumont si riappropria del suo stesso metodo nel momento in cui affronta la sua poetica come in un flashback che va dall’inizio della carriera fino al presente. Questo approccio permette di escludere fin da subito la macchina da presa come intermediario tra lo spettatore e l’immagine, in modo che il contesto creato dalla mediazione degli occhi dei giovanissimi protagonisti non incontri ostacoli.

Tutti questi fattori portano al compimento P’tit Quinquin, permettendogli di proporsi come un paradosso del visivo. Doveva essere un film il cui scopo era la completezza e invece ci troviamo di fronte a un’opera che è manifesto della parzialità e che tende continuamente da un versante verso il rispettivo opposto: un film in mezzo. Così come è a metà fra dramma e commedia, è in mezzo fra la serie televisiva e il film, fra la pura amatorialità/spontaneità e l’artificio più macchinoso (si veda quella scena emblematica in cui la fidanzatina Eve non riesce a dire “ti amo” a Quinquin e si mette a ridere per l’imbarazzo). Ed è per questo che v’è meno certezza e oggettività in questo film di Dumont che in tutti i precedenti. Il film in mezzo appare quindi come un’opera in continua realizzazione, o meglio, come una continua realizzazione di un’opera che quanto più procede tanto più si radicalizza nel suo opposto, così da giocare con l’analisi che lo spettatore fa di essa: lo confonde ribaltando ulteriormente i neo-stilemi che egli crede di aver compreso. Tale principio si realizza nella sua pienezza proprio all’ultimo momento, dando lo schiaffo definitivo alle aspettative con il suo finale, un incredibile cul-de-sac che corona un film stravagante e giocoso, pur nella serietà di quel che fino in fondo esso cela.

“Continuerò a lavorare nel senso della tragicommedia”

In conclusione, P’tit Quinquin è un film che forse non si pone neppure il problema di piacere o meno, deve solo consistere in un’interessante visione e sconvolgere, portando caos in un linguaggio cinematografico consolidato, come presumibilmente faranno i successivi film di Dumont, che ha annunciato di voler proseguire su questa nuova radicalizzazione della sua poetica, si spera per raggiungere un’altra climax assoluta, un altro Hors Satan. Inoltre, nella sua complessità, P’tit Quinquin è in grado di far ridere, portando nuova aria nella ricostruzione dell’immagine che il cosiddetto nuovo cinema contemplativo sta portando avanti dall’inizio degli anni 2000.