“Casa, dolce casa” sembra pensare Bong Joon-ho, che dopo la doppia parentesi americana (composta dal discreto Snowpiercer e dal passabile Okja) decide di tornare sul suolo patrio per girare probabilmente il suo film più intenso e meglio riuscito. Parasite consacra in modo definitivo il regista come uno dei volti più interessanti del panorama sudcoreano rilanciandolo anche in ambito internazionale, paradossalmente. L’incasso è già ben al di là di ogni più rosea aspettativa e si parla addirittura di nomination agli Oscar, senza contare la vittoria a Cannes; fattori che legittimano Bong agli occhi del grande pubblico e – cosa ancor più importante – gli forniranno i mezzi per poter evitare compromessi in futuro.

“Casa, dolce casa” è quello che sembrano pensare anche i personaggi del film, un nutrito gruppo eterogeneo di dieci personaggi principali le cui vicende sono legate a doppio filo a una villa con più di un segreto che coincide con il set principale nonché con una sorta di undicesimo personaggio, il più inquietante. La villa è un fattore duplice nel suo rappresentare sia il nucleo narrativo sia il mezzo che che da la possibilità al regista di implementare gli strumenti a disposizione della regia e della comunicazione per simboli. Ma prima di tutto ciò è banalmente la residenza della famiglia Park, una coppia istruita, altolocata e ricca con due figli ed enormi aspettative nei loro confronti che entrerà casualmente in contatto con i Kim, un’altra famiglia a suo modo speculare e opposta, povera e tagliata fuori dal consorzio umano ma con due figli intelligenti e soprattutto determinati a cogliere l’occasione della loro vita, parassitando i Park assieme ai genitori.

Di quest’ultimi il regista ci dice tutto associandoli fin da subito all’idea di “basso”: vivono letteralmente ne bassifondi di Seul, la loro casa è uno scantinato di periferia le cui finestre sono all’altezza del marciapiede, per andare da qualunque parte invece devono affrontare una salita, come se la città fosse costruita per livelli – tant’è che i Park abitano in cima a una collinetta. Al contempo la prima inquadratura li dipinge già come un branco, un corpo unico e sincronizzato capace di volgere le situazioni e proprio vantaggio e spremere sangue dalle rape con l’ingegno. Il figlio dei Kim ha l’occasione di insinuarsi nella villa come (falso) tutor della figlia dei Park e così cospira con i genitori e la sorella architettando un complesso piano che permetterà a tutti loro di assumere una posizione alla dipendenze della famiglia più ricca. Non hanno fatto i conti però con la governante di cui hanno causato il licenziamento per liberare il campo e con le vere motivazioni che la inducono a non andarsene.

Servi e padroniParasite si sviluppa su questa traccia ma varca il limite, si arricchisce di una moltitudine di elementi difficile a catalogarsi. Non è operazione semplice anche solo ascrivervi il genere di appartenenza, trattandosi più o meno di una miscela di comicità, dramma con continui travasi, una tragicommedia nerissima con punte di critica sociale strutturata, di grottesco e di feroce ironia girata però, per ritmo e gestione degli spazi, come se fosse un film d’azione (o di truffa). Inoltre c’è più di una somiglianza con Hollywood party per quanto riguarda la messa in scena, ma lo scontro tra servi e padroni per come lo vede Bong è sanguinario e non nell’accezione rivoluzionaria del termine, piuttosto è implicato un reciproco dissanguamento psicofisico logorante e destinato a implodere. Ci sono più vittime di quante inizialmente se ne vedano, e il colpo di scena a metà del film è l’espediente che dà il via a un’intrigante metafora sulla “guerra tra poveri” fino alla climax della conclusione.

Se i Kim parassitano i Park, soddisfacendo bisogni e colmando vuoti appositamente creati, i Park a loro volta non sono da meno, perché la loro presa sui dipendenti non è solo economica ma anche emotiva, così l’umiliazione diventa presto un fattore di scambio in questa bizzarra equazione, come è particolarmente evidente con il capofamiglia Kim interpretato dal sempre perfetto Song Kang-ho, feticcio del regista. La prima metà del film è una cavalcata che fa compenetrare gradualmente i due nuclei familiari escamotage dopo escamotage, densa sul piano dell’intreccio e spregiudicata su quello delle tempistiche. Bong non si fa nemmeno troppi problemi a facilitare la scorrevolezza con un paio di espedienti frettolosi (uno è un vero e proprio macguffin), perché alza il livello con un interpretazione del lavoro registico che più ricca non si potrebbe.  Dopotutto Parasite è un film sugli spazi, la divisione alto/basso di cui sopra si configura come il primo tassello di una chiave estetica ben precisa che ci accompagnerà per tutto il film.

La condizione di possibilità è, ça va sans dire, la casa progettata dalla fittizia archistar Namgoong. Un open space semi-surreale che appare consapevolmente sempre più un set che una vera abitazione, nella quale ognuno dei personaggi trova un suo spazio specifico. Bong delinea il suo ultimo film quasi più con la scenografia che con la scrittura, facendo dello sfondo il cardine delle inquadrature, sia nella composizione, sia nei posizionamenti. I Kim sono rinchiusi anche all’aperto per un motivo o per l’altro, il loro ambiente è contiguo a quello che invadono senza tuttavia essere il medesimo, e “l’occupazione” avviene tramite una progressiva presa di controllo di alcuni settori spaziali, piano dopo piano secondo un preciso scacchiere tattico. Il design generale dell’ambiente riflette le modalità secondo cui i momenti devono essere interpretati, perché fin da subito il regista inizia ad alfabetizzare lo spettatore al linguaggio della villa, come se fosse un corpo autonomo dotato di volontà, riuscendo a trasformare il set in una risorsa incredibilmente fertile sul piano comunicativo evitando didascalismi espliciti.

Lo stesso discorso vale per la profondità di campo, tecnica utilizzata senza riserve in numerose occasioni come a delineare una separazione interna agli stessi ambienti nella stessa inquadratura sottolineando così un’incompatibilità di fondo: spesso nella stesso spazio in primo piano avviene un azione (ad esempio la vita quotidiana dei Park) e in profondità un’altra (i Kim che cercano di capirsi gesticolando o che approfittano dei momenti per organizzarsi). La stanza dove si svolge una determinata azione o un dato dialogo ne cambia il senso all’interno del film, permettendo alle varie scene di caricarsi di ulteriori significati attraverso una sorta di cifratura elementare. E poi arriva il colpo di genio, la capacità di spiazzare della mdp, l’occhio meccanico che dal nulla crea un nuovo ambiente, un livello sotterraneo sempre presente (ci sono almeno un paio di indizi) eppure sempre invisibile che da il via alla seconda folle metà della pellicola. Se la prima parte è una sorta di macchina tritatutto che ingloba al suo interno ogni cosa secondo uno schema narrativo estremamente compatto filando via in un niente, la seconda restituisce tutto con gli interessi, a partire proprio dal piano sequenza al contempo geometricamente perfetto nei movimenti e di fatto slapstick nella realizzazione che segna la transizione tra le due ideali porzioni.

D’altro canto se c’è un piano interrato che diviene preoccupazione dei Kim, c’è anche un livello sopraelevato nel finale, un giardino chiuso che sembra l’Eden in una contrapposizione paradiso/inferno sulla falsariga di quella iniziale alto/basso, ora portata alle sue estreme conseguenze. Nel giardino deflagrano la società delle apparenze e il risentimento, la follia silenziosamente accumulata e perfino un sprazzo di lotta di classe nella cornice di In ginocchio da te di Gianni Morandi – sì, davvero, come se non fosse tutto già abbastanza folle a quel punto si passa da Händel a Morandi -, cui segue un epilogo amarissimo. Per una volta nelle due ore abbondanti d crudo realismo anche e soprattutto nelle situazioni più paradossali, Parasite evade e ricorre a un onirismo semplice ma che colpisce con forza, evidenziando quello che manca, facendolo balenare davanti agli occhi per poi toglierlo. Il sogno è una cosa, la realtà un’altra. Un finale cattivo nel vero senso della parola, che non si limita a ribadire che il titolo del film può riferirsi a tutti i personaggi riuscendo a implicare, similmente a Snowpiercer, una incolmabile vacuità di fondo. Parasite è la rappresentazione di un ciclo vitale di un organismo parassita, nella pratica e nella teoria: lo stesso sognare è un comportamento parassitario, assorbe fatica e impegno promettendo in cambio la soddisfazione dei desideri, ma Bong Joon-ho non ammette eccezioni, insiste sull’idea che nulla possa cambiare, e la sottile ciclicità del finale è l’ultimo mattone di quel muro di angoscia che risponde al nome di Parasite, una tragedia senza cattivi, una commedia dove nessuno ride.