Non bastano ancora tutti i film che abbiamo già visto sull’olocausto e sui nazisti? Dopo aver visto questo Persian Lessons, bisogna dire che la risposta è che no, non bastano, questo film ci voleva ancora. E dopo che lo si è visto, viene da pensare che non si sarebbe potuto non vederlo: come per La Vita è bella, Train de vie, Il Pianista, Schindler’s list, Jojo Rabbit e tanti altri.
In un camion dove un gruppo di ebrei, catturati in Belgio dai nazisti, viaggiano verso il lager, il giovane Gilles scambia un pezzo di pane in cambio di un vecchio libro in lingua Farsi, che un altro prigioniero aveva sottratto all’ex padrone di casa.
A partire da quel libro, del quale non capisce assolutamente nulla, Gilles cerca di salvarsi la vita, facendosi passare per persiano. Diventa così Reza e, anche se alcuni dubitano della sua sincerità, in realtà nessuno è in grado di elencare incontrovertibili caratteristiche antropologiche che distinguano un ebreo belga da un persiano. Il capo del lager, che nella vita civile era un capo cuoco, sogna che dopo la guerra aprirà un ristorante in Persia e approfitta del tempo della prigionia di Reza per farsi insegnare la lingua del Paese dove progetta di trasferirsi.
Dal punto di vista privilegiato di insegnate del capo, per quanto paradossale sia questo privilegio, Gilles/Reza vive le vicende atroci del lager, vede persone morire per nulla, innocenti sterminati. In questo contesto l’espediente narrativo di una lingua “inventata” è tanto geniale quanto improbabile, ma efficace nella sua valenza metaforica. È infatti proprio a partire da una lingua inesistente che si perpetua la vita di un uomo la cui famiglia, lingua, cultura e storia vengono annientate.
Il film è ispirato a una storia vera, dicono i titoli di testa. In verità il film si basa sul breve racconto Invenzione di una lingua (Erfindung einer Sprache) di Wolfgang Kohlhaase, ottantottenne scrittore e sceneggiatore berlinese tra i più attivi della storia del cinema tedesco e mondiale. Già attivo ai tempi della Germania est, dove viveva e lavorava, Kohlhaase scrisse questo geniale, originale e attualissimo racconto nel 1977. Purtroppo oggi in libreria questo testo è introvabile, esiste solo in qualche polverosa libreria di rari intellettuali “ex” comunisti. Ma non c’è dubbio su quanto sia “vera” la “storia” che fa da sfondo alla trama.
Vadim Perelman è il regista di questo lavoro sentito e profondo, interpretato magnificamente sia da Nahuel Pérez Biscayart (Gilles), sia da Lars Eidinger (Il Capo), uno degli attori contemporanei più amati in Germania. L’occhio del cinquantasettenne Perelman ha saputo cogliere il dramma dell’olocausto, lui stesso di origine ebrea, ucraino di nascita e fuggito adolescente con la madre, dopo la morte del padre, verso il Canada, transitando da Vienna e Roma in estrema povertà.
Oggi Perelman è tornato a lavorare in Russia, ma ci voleva lo sguardo non di un tedesco, bensì ancora una volta (come per Berlin Alexanderplatz) di uno straniero, passato attraverso difficoltà e sradicamenti, per comprendere il senso e trasmettere il significato di un’opera della letteratura tedesca.
Il film è stato presentato con grande successo nella sezione Speciale fuori concorso della 70° Berlinale, nel febbraio 2020. A marzo nelle sale.