Tra il 17 settembre al 4 aprile si consuma il dramma di una coppia che fatica a restare unita dopo la perdita della loro bambina appena nata.
Sono date forse non scelte a caso da parte del regista, il 45nne Kornél Mundruczó, con la sua “storica” sceneggiatrice Kata Wéber (Una chiamata Europa, Sinfonia per Hagen e poi White Dog, vincitore a Cannes 2014 nella sezione Un Certain Reguard) per raccontare qualcosa già molto difficile da elaborare.
Semplicemente: non sempre gli intenti coincidono con i risultati.

“Mia moglie ed io volevamo condividere con il pubblico una delle nostre esperienze più personali attraverso la storia di un figlio non nato, nella convinzione che l’arte possa essere la miglior cura per il dolore. Saremo gli stessi di prima dopo una tragedia? Riusciremo a trovare qualcuno che ci accompagni nella caduta libera del dolore?”

Martha, americana di origini ungheresi, e Sean stanno per avere il loro primo figlio. La donna ha deciso per un parto in casa, non vuole una nascita programmata, desidera che la sua bambina scelga quando venire al mondo. Si affida ad un’ostetrica privata. Il parto è più complicato del previsto. L’ostetrica fa chiamare un’ambulanza. Ma non c’è niente da fare.
Passa un mesetto, Martha riprende a lavorare in ufficio, Sean lavora come trivellatore per la costruzione di un nuovo ponte, l’ostetrica è sotto processo. Ricominciare da capo dopo un simile lutto è un dramma difficile da comunicare e condividere.

E qui arriviamo al nodo centrale di questo film, prodotto tra gli altri da Martin Scorsese, in concorso alla Mostra del Cinema 2020, edizione numero 77. Un altro film in concorso molto personale e intimo (proiettato lo stesso giorno di Padrenostro).
Riuscire a stimolare la sensibilità di chi guarda scegliendo di affrontare alcuni argomenti drammatici con un uso pesante, da diventare inconsapevolmente ridicolo, di allegorie, è un rischio bello grosso.

I difetti sono soprattutto di sceneggiatura, ma c’è anche l’oggettiva difficoltà di rappresentare un dolore così profondo e trasmetterlo a chi guarda.

Vanessa Kirby – Foto © Alcide Boaretto

Dalla tensione ossessiva della scena del parto finale al processo contro l’ostetrica, Pieces of a Woman spezzetta la vita di Martha (una Vanessa Kirby notevole). A partire dal baby shower (la tipica festa in prossimità della nascita) per arrivare alla ricerca di un punto da cui ricominciare, Mundruczó e Wéber sbandano inserendo fin troppi elementi, alcuni vaghi, nelle ben due ore e dieci minuti: i problemi di alcolismo del marito, la madre (Ellen Burstyn, premio Oscar per Alice non abita più qui di Scorsese) nata in un campo di sterminio e ora con problemi di Alzheimer, la parente avvocato rampante, il processo legale contro l’ostetrica.
A questi si aggiunge una allegoria retorica che stride: i semi della mela, custoditi con cura perché possano diventare germogli, i ponti distrutti e quelli da costruire (letteralmente, un ponte sul lago, che da ottobre viene terminato ad aprile, quando Martha comincia a rivivere).

Pieces of a woman porta con sé un dolore caotico, ma quella disperazione vera e credibile attenta ai dettagli, che ne farebbe un film più coinvolgente, si disperde, come si diceva, nel troppo detto e voluto dire.