Nella nuova onda del cinema greco dal respiro genericamente weird (Lanthimos, Tsangari, Zapas, tanto per capirci) non è ancora chiaro che ruolo occupi o possa occupare in futuro Babis Makridis, messosi in evidenza nel 2012 con il surreale L. Sei anni dopo confeziona questo Pity, in collaborazione con Efthimis Filippou, braccio destro e sceneggiatore proprio di Lanthimos, caratterizzato da una premessa e una messa in scena più realistiche ma anche da un secco cambiamento per quanto riguarda tono e atmosfera verso il grottesco più classico, senza abbandonare la cifra stilistica meccanica tipica del movimento di appartenenza.

Presentato al Sundance 2018 e poi a Torino sul finire dello stesso anno, Pity è ambientato in una cittadina senza nome sulla costa ionica e vede una serie di personaggi senza nome nella banalità della loro vita quotidiana. Al centro di tutto v’è però un avvocato di mezza età, benestante e stimato, che vive solo con il figlio adolescente dopo che la moglie è finita in stato comatoso a seguito di un non meglio specificato incidente. Paradossalmente, questa disgrazia ha fornito al nostro protagonista una forte identità, rassicurato dalla compassione che è ormai divenuta il nucleo di ogni suo contatto umano. Assuefatto a questa bizzarra forma di protezione psicologica, ovvero felice in questa infelicità controllata, non riuscirà per nulla a gioire del risveglio della moglie, anzi, si scoprirà svuotato; perciò dal quel momento si ingegnerà in tutti i modi, in una spirale ovviamente discendente, pur di ottenere anche solo un po’ di commiserazione fraudolenta.

Ora, a sentire la storia di un avvocato benvoluto da tutti senza motivi verrebbe da pensare a Gianni Agnelli, ma il nostro protagonista è ben diverso: è un mendicante di pietà, inebriato e intossicato dalle impacciate premure altrui. Dalla gentilezza dei personaggi che lo circondano traspare falsità, la segretaria lo abbraccia perché non sa come parlargli, la vicina lo omaggia di torte quasi quotidianamente poiché non ne regge lo sguardo sul pianerottolo. Si tratta di un gioco delle parti, c’è chi conforta e chi viene confortato. Pity è un film sui sentimenti, non distante da The favourite (tanto per rimanere in zona) avente però una struttura più vicina ai primi film della nuova scuola greca. La regia di Makridis è, ancora più che in L, un trionfo di immobilismo, trasuda staticità grazie a un susseguirsi di inquadrature molto posizionali, tutte volte a eliminare la percezione spaziale dello spazio e delle distanze. Distanze che invece vengono enfatizzate a livello umano, dal momento che è dura notare due personaggi vicini nel film, e anche quando succede è presente una sorta di linea di demarcazione, come i tubi di metallo delle docce in spiaggia, ad esempio, o ancora la siepe che chiudendo i nostri in un labirinto seminascosto li strappa l’uno all’altro.

Il film stesso è diviso, gli spezzoni sono via via più brevi man mano che si prosegue con la visione. Le cesure sono affidate a intermezzi che tra una sequenza e la successiva infilano pensieri e suggestioni insane, evidenziando ciò che martella nella testa del protagonista, scimmiottando la struttura della tragedia greca e in particolare il coro. Tentativo forse troppo esplicito e pretenzioso che non manca però di indirizzare l’occhio dello spettatore verso la dialettica fra realtà e finzione, svelando progressivamente come l’avvocato più che cullato dalla commiserazione dei vicini sia in realtà rincuorato dal fatto di avere una parte, un copione già scritto entro cui muoversi così da non affrontare l’incertezza del mondo reale. E così coloro che lo circondano. L’avvocato ha trovato posto in un microcosmo rappresentato (con un silenzioso accordo tra sé e gli altri, identici a lui ma con un altro ruolo) e in questa simulazione reale/non-reale si libera dei pesi, sfoga l’istinto morboso di evitare la solitudine – d’altronde a un certo punto dell’opera, durante la rituale partita di poker con gli amici, si parla in termini più o meno chiari di catarsi, e l’esempio tirato in ballo è quello del pianto nel cinema, così impossibile da simulare da certificarne la falsità, escludendo a priori l’idea della sofferenza: una sorta di catarsi al contrario, quindi.

L’architettura ridondante e scanalata di Pity in virtù di tutto questo regge benissimo nella prima metà abbondante del film, un po’ meno nella seconda quando, dopo il risveglio della moglie, il protagonista dà vita a una escalation nel procacciarsi compatimento nei modi più cervellotici e umilianti, scivolando sempre più nel genere grottesco nella descrizione dei piani e degli escamotage messi a punto dal nostro per perseguire lo scopo. Egli finisce divorato dalla tensione tra agire e non agire di pari passo con il ritmo dell’opera, che mette nel finale troppa carne al fuoco per poter gestire dignitosamente tutto quanto, in particolare nel coniugare il ruolo dell’emotività simulata e la sua relazione con quella veritiera con la finzione in sé, al di là del contenuto rappresentato, come viatico catartico. Anche la regia si fa più movimentata pur di farsi più accessibile, come a cercare di disinnescare un immobilismo di fondo ormai fuori controllo.

Pity rimane comunque un film di fattura chiara e precisa in grado di dare fiato a una moltitudine di stimoli molto oltre quanto pare capace di fare, per certi versi è eccessivamente sopra le righe, per altri invece scava più a fondo, facendosi scudo con un’emotività anestetizzata di facciata, nel legame tra genuino, meccanico, e artificioso nella sfera sentimentale del suo personaggio (e un po’ di tutti) tirando in ballo direttamente lo spettatore – seppur magari con qualche espediente tendente al ruffiano in qualche occasione – mediante l’insistenza sulla sua natura di voyeur, cioè mettendo in gioco una riflessione sul ruolo della finzione dell’alfabeto emotivo a partire proprio da una finzione pura e semplice che però sembra possedere uno spirito di catarsi ma all’inverso, come se in fondo fosse tutto una sorta di dimostrazione per assurdo fatta film.