Le sorelle americane Laura e Kate Barlow – Natalie Portman e Lily-Rose Depp – mettono in contatto i vivi con i morti. Nella Francia pre-Seconda guerra mondiale, come oggi, è uno spettacolo da cabaret. Ma la sicurezza economica e il successo sono un’altra cosa, nonostante una delle due non stia recitando. Un produttore cinematografico di origini polacche le nota e rimane ossessionato dall’idea di filmare le presenze evocate dalle sedute spiritiche. Mentre la sorella più bella (ma meno dotata) intraprende una carriera del mondo del cinema, l’altra asseconda la follia del produttore, fino al tragico epilogo.
Planetarium è un film confuso e ridondante, vittima di un copione inconsistente e ambizioso. La giovane regista “di donne” Rebecca Zlotowski si perde fin dai primi minuti nella galassia incerta dell’ambizione femminile e nella voragine grottesca dell’ottusità maschile. Ci piacerebbe essere trasportati in un universo senza barriere stilistiche e morali, in quel mondo del cinema – o dei morti – dove ogni cosa è possibile.
Assistiamo invece a un pastiche contratto, bulimico e, in fin dei conti, convenzionale. L’ossessione non è sincera, la libertà narrativa artificiosa e l’intervento tardivo della Storia (nella seconda parte di Planetarium entra in gioco il contesto razziale del periodo), superficiale.
Onesta la prova delle protagoniste (soprattutto dopo l’incredibile performance di Natalie Portman in Jackie, presentato sempre a Venezia 73.) e del cast impegnato però a sopravvivere a una vicenda pretestuosa che vorrebbe costruire un mondo di fantasmi e di stelle, di ambizioni e minacce, di emozioni e morte finendo invece per implodere in un universo ben più limitato. La metafora metacinematografica poi, l’intangibile materia di cui sono fatti i sogni, non aiuta Planetarium a emanciparsi da uno stile autoriale che nasce già vecchio.