Attraverso una serie di flashback assistiamo ad alcuni momenti, compresi tra il 1926 e il 1945, nella vita di Mijo, giovane figlio di una famiglia di contadini che vive di stenti tra le montagne del remoto entroterra croato nel periodo dei totalitarismi europei. La miseria che ha conosciuto sin dall’infanzia e i traumi subiti lo porteranno a provare una vaga fascinazione per la propaganda nazionalista degli ustascia, promotori del primo Stato croato indipendente, in realtà fantoccio dei nazisti…

Quando in apertura a Celebration, lungometraggio di debutto del croato Bruno Anković in programma in questi giorni a Karlovy Vary (concorso principale), vediamo sullo schermo la cifra 1945 e, subito dopo, un ragazzo emaciato e sporco che, armato di una pistola, si nasconde tra i boschi dormendo all’addiaccio, d’istinto verrebbe da pensare a un partigiano antifascista: il giovane protagonista e il luogo in cui si trova ricordano davvero le storie dei ‘ribelli della montagna’, i personaggi di Calvino o Fenoglio. Più avanti, però, scopriamo che il ragazzo, Mijo, ha per così dire scelto la parte sbagliata della Storia: è infatti un miliziano dell’armata croata collaborazionista e, similmente ad altri suoi commilitoni, alla fine della Seconda guerra mondiale si nasconde tra i boschi, braccato dai titini che di lì a poco consolideranno la Jugoslavia comunista.

Ma a interessare il regista, e prima di lui lo scrittore croato Damir Karakaš dal cui omonimo romanzo è tratto Celebration, non è tanto il presente e il futuro, quanto il passato recente e lontano di Mijo: quasi si trattasse degli incubi che perseguitano il ragazzo durante le notti trascorse nei boschi, nel corso della narrazione, ellittica e non lineare, affiorano infatti alcuni episodi in ordine non cronologico (prima il 1933, poi il 1926, poi il 1941) in cui siamo testimoni, delle condizioni in cui sono trascorse rispettivamente l’adolescenza, l’infanzia e la giovinezza di Mijo. Ci troviamo in un poverissimo e isolato villaggio dell’entroterra croato, molto simile, nella conformazione dei paesaggi e delle case in pietra e legno oltre che nella quotidianità durissima dei suoi abitanti, ai coevi paesini delle Alpi venete o friulane: il ‘progresso’ novecentesco sembra lontano anni luce, la natura è aspra in tutte le stagioni – nel film, seguendo non a caso il ritmo ciclico inscindibile dall’ambiente rurale, le vediamo tutte –, il cibo scarseggia, i neonati spesso muoiono di inedia, freddo o malattie. Come se non bastasse, ai burrascosi albori del XX secolo il territorio croato cambia spesso padrone, ma gli abitanti delle zone rurali vengono immancabilmente tiranneggiati dagli emissari del potere. In un simile contesto, Mijo vive esperienze traumatiche che lo segnano in profondità, dalla necessità di abbandonare nel bosco il suo amato cane mandandolo a morte certa, all’analoga sorte che tocca al nonno malato, anch’egli portato nel bosco per morire in cima alla montagna lasciando così una bocca in meno da sfamare, in quella che sembra una versione ancor più nera di fiabe come Pollicino o Hänsel e Gretel. Né Mijo, né la sua coetanea Dranka, da lui da sempre segretamente e teneramente amata, hanno ovviamente la possibilità di studiare, dal momento che sin da bambini si occupano dell’orto o delle bestie da condurre al pascolo.

Tutto ciò non può che creare un terreno fertile per il coinvolgimento di un simile ‘popolo’ povero e analfabeta nelle trame disumane della macchina totalitaria: la festa del titolo è infatti una manifestazione propagandistica nella piccola città più ‘vicina’ al villaggio (dove nel 1941 Mijo, Dranka e il fratello di Dranka, ormai ventenni, si recano a piedi camminando per una giornata intera, come se fosse un pellegrinaggio religioso), organizzata dalle nuove autorità della prima Croazia ‘indipendente’, in realtà Stato fantoccio in mano ai nazisti. Sin troppo facile illudere dei giovani contadini – che, come tutti, vorrebbero solo vivere una vita dignitosa, innamorarsi, costruirsi una casa dove abitare al sicuro – dando loro la velleitaria possibilità di vantare una propria patria di cui sventolare la bandiera con orgoglio e sognare, come fa il fratello di Dranka, un riscatto personale entrando nelle fila degli ustascia nazionalisti in modo da congedarsi per sempre dalla miseria del villaggio. Al termine del film vediamo i tre ragazzi unirsi alla processione festosa diretta verso la città, dove a uomini e donne in costumi tradizionali che cantano portando corone di fiori si alternano veicoli con a bordo militari in uniforme che fanno il saluto nazista: a uno di loro cade il berretto, e Mijo lo raccoglie e se lo mette, così per gioco. Proprio in questo gesto innocuo e ingenuo di un ragazzo semplice – così simile a tanti volti reali che scorgiamo nei filmati di repertorio posti in coda al film – si cela, forse, il punto di svolta che quattro anni dopo gli costerà la vita, in quegli stessi boschi montani che avevano visto la morte del suo cane e di suo nonno.

Al posto di Mijo, come sostiene il regista in un’intervista di presentazione del film, oggi potrebbe esserci un soldato della provincia americana, o russa, o di altri paesi in cui le condizioni di vita pietose di larghe fette della popolazione rendono queste ultime delle ideali ‘pedine’, quanto mai vulnerabili di fronte alla propaganda di chi promette loro un destino da eroi pronti a immolarsi per una patria la cui grandezza dovrebbe compensare le ristrettezze della vita di tutti i giorni: a maggior ragione questa è una dolorosa verità per i Balcani, dove, come ben sappiamo, una trentina d’anni fa i nazionalismi locali, riprendendo il filo sanguinoso temporaneamente interrotto dopo il 1945, hanno mandato al macello numerosissimi coetanei – e conterranei – di Mijo. La non linearità della narrazione e l’immutabilità del villaggio del film, come sottolinea il regista, è d’altronde un’ulteriore illustrazione di quest’assenza di progresso storico, di questo eterno ritorno dell’identico.