“Rodin” di Jacques Doillon

Ritorna sotto i riflettori Jacques Doillon, i riflettori della 70esima edizione del Festival di Cannes. Viene quasi spontaneo parlare di un ritorno, ma la verità è che Doillon non se n’è mai andato, pur rimanendo nell’ombra, con alterne fortune per le sue ultime opere.

E con un po’ di malizia viene da chiedersi se i trascorsi degli anni ’10 non lo abbiano in qualche modo aiutato a lanciarsi in un biopic su Auguste Rodin, figura imprescindibile in Francia e non solo, e per questo decisamente più commercializzabile. Certo si potrebbe scorgere pure dell’ironia molto sottile, in un artista che prova a uscire da una fase povera in termini di riconoscimento andando a riscoprire colui che fu uno degli artisti desiderosi d’agnizione accademica più di ogni altra cosa per antonomasia, ma non è questo il punto.

Il punto è che non v’è né malizia né ironia in questo Rodin, che invece si configura in maniera abbastanza standard, sviluppandosi tutto in un continuo crescendo che parte da uno dei momenti più importanti della carriera dell’artista (la prima commissione statale, cioè La porta dell’Inferno) e prosegue celebrandolo a tutto tondo dividendo il personaggio tra l’atelier e un pianerottolo che ospita simpatici dialoghi con i vari Cézanne, Monet, Zola, mescolando in questo modo un lato biografico lineare con momenti più astratti, di confidenze tra artisti. Questa giustapposizione non è da considerarsi così banale, dà vita a un espediente che non si può definire malvagio, tenendo conto è prassi nel biopic cercare una via d’uscita dallo schiacciamento sul mero ritratto.

I due momenti, quasi catalogabili in uno pratico e uno teorico sono legati dall’attenzione che Doillon dedica al lato tecnico-creativo, sottolineando l’aspetto più forte della scultura, quello della pietra informe che viene lentamente plasmata in una serie di forme flessuose capaci di contenere chiaroscuri e plasticità. Un ruolo di capitale importanza lo gioca la fotografia di Beaucarne, quasi protagonista nell’evidenziare le similitudini muscolari trai corpi di pietra e quelli di carne, nell’evidenziare i sudori e i granuli limati via e nel risaltare i lampi di dinamismo in una regia fortemente statica, a tratti forzatamente, quasi volesse a tutti i costi apparire pensierosa quanto l’interprete principale. Vincent Lindon e Doillon in quest’intento però falliscono a braccetto: il primo è così chiuso nella sua interpretazione da risultare macchiettistico per come rifiuta lo scambio con la scena, il secondo non riesce a discostarsi da crismi sostanzialmente televisivi, nonostante l’innegabile talento visivo (manifestato soprattutto negli ’70-’80) e la cura nella composizione della scena. Considerando poi che Lindon firma una prestazione sottotono anche perché diretto in tal modo, le colpe di Doillon sono da raddoppiarsi a bilancio.

Il regista lascia la presa dopo pochi minuti dall’inizio del film, concentrandosi su una rappresentazione – fa quasi strano dirlo – estremamente commerciale, che elide completamente lo sguardo autoriale per presentarci un Rodin, al di là di paragoni con la realtà, in versione “cartonato”. Il grande artista incompreso e volubile, silente e sanguigno che mette in bella mostra le caratteristiche stereotipiche particolarmente riconoscibili di fatto solo per renderne potabile l’ingombro dal punto di vista sociale e culturale. Criminale inoltre è la trasposizione del rapporto con Camille Claudel, quella Camille Claudel che Dumont aveva cristallizzato così pienamente nell’opera del 2013, qui invece a ridotta a fare l’innamorata gelosa e imbronciata da commedia degli equivoci, necessariamente subordinata alla figura imponente dell’amante-maestro, comunque più amante che maestro, onde evitare di complicare eccessivamente una pellicola che fugge a gambe levate dall’impegno in sé e a tratti pedagogica.

Pedagogica anche per come rinuncia a qualunque forma di messa in scena degna di questo nome dopo aver strutturato la bipartizione di cui sopra. Doillon sembra pigro nel ricercare una chiave espressiva o anche solo visiva per mostrare il suo Rodin e si accontenta di raccontarlo affidando ai dialoghi sul pianerottolo ogni (comunque scarso) ragionamento critico, alla stregua di una tesina di maturità che si compiace dei collegamenti interdisciplinari illustrati, gonfia e raffazzonata, sempre più sino alla conclusione, tremendamente esplicativa nella sua petulanza. Quella combriccola di turisti asiatici in dissolvenza che scatta foto al Balzac ci riporta esattamente dove dovremmo stare per vedere un’opera del genere: a scuola. Quest’ultima opera di Doillon è un film scolastico, celebrativo; più che altro è ispirato solo dalla necessità di festeggiare pseudo-patriotticamente il centenario dalla morte dello scultore per cementarlo nel panthéon collettivo, né più né meno di come la televisione istruisce a suon di sceneggiati i telespettatori del mercoledì sera codificando un provinciale canone culturale. Avrà certo qualcosa in più sul piano estetico rispetto a una produzione qualsiasi, ma rimane il fatto che questo Rodin con il cinema ha poco a che fare, visto che al 60% è TV.

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