Dopo l’anteprima mostrata in occasione della 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia approda nelle sale italiane Sing, un esilarante talent show a base di musica con un cast di doppiatori stellare che segna l’esordio nel mondo dell’animazione di Garth Jennings, nella doppia veste di sceneggiatore e regista.
Il koala Buster Moon – cui in originale presta la voce Matthew McConaughey – è un impresario teatrale in bancarotta che per rimettersi in sesto decide di indire una competizione canora. Tuttavia, a causa di un errore di stampa sui manifesti il premio messo in palio è di centomila dollari in luogo dei mille a disposizione di Buster, il quale però preferisce tacere la verità e approfittare della situazione. Durante i provini facciamo la conoscenza dei partecipanti destinati a scontrarsi nella finalissima, ovvero la maialina Rosita – Reese Witherspoon – e il suo partner di ballo Gunter, il topo Mike, la porcospina Ash – Scarlett Johansson – e il gorilla Johnny.
La grande esclusa dei provini è Meena, un’elefantessa con l’ansia da prestazione che nonostante la timidezza riesce a farsi assumere come macchinista, per poi subentrare nello spettacolo allorché si libererà un posto. Il giorno delle prove generali sembra andare tutto per il meglio finché nello stabile irrompono degli orsi affiliati alla mafia alla caccia di Mike, che nell’incursione svelano l’inganno di Buster e radono al suolo il teatro. Toccherà quindi agli aspiranti cantanti risollevare il morale del povero Buster e mettere in piedi il grande show che tutti si aspettano, anche a costo di esibirsi su un cumulo di macerie.
Come avevamo già potuto intuire a Venezia, l’ultimo lungometraggio targato Illumination Entertainment – Cattivissimo Me, Lorax – , che ha preso forma a partire da un’idea originale dello storico produttore e fondatore dello studio Chris Meledandri, si configura come un vero e proprio musical animato. L’opera è corale in tutti i sensi, in primo luogo per la perfetta calibrazione di tempi – comici e non – e spazi coadiuvata dal montaggio, in maniera non dissimile da quanto visto in Zootropolis.
La vita privata di ciascun finalista, costituente il secondo livello narrativo del film, si intreccia a turno con il livello principale dell’allestimento dell’esibizione, evitando così i tempi morti e regalando uno sguardo d’insieme sulla città in cui si consumano le vicende.
Tuttavia, rispetto al titolo disneyano vi è una fondamentale differenza: il mondo di Sing è quello dello spettacolo e di conseguenza il centro del suo microcosmo è rappresentato dal teatro, cui i personaggi cercano di far ritorno in ogni momento; non a caso la macchina da presa preferisce non indugiare al di fuori di esso e opta semmai per il dettaglio in occasione delle performance musicali.
Inoltre, per quanto si possano distinguere dei personaggi principali, a livello di sceneggiatura è stata prestata altrettanta attenzione ai siparietti di quei concorrenti che difficilmente resteranno in scena per più di qualche minuto e che eppure riescono ad accattivarsi la simpatia dello spettatore con le loro gag, basate su una comicità tradizionale fatta di movimenti e fraintendimenti – si pensi all’indimenticabile quintetto di tanuki nelle vesti di idol giapponesi.
Ma la ragione per cui possiamo a diritto definire Sing un musical è la morale che ne sta a fondamento. Ognuno ha la sua croce da portare: Rosita è una madre di famiglia che non trova tempo per sé stessa né apprezzamento dal marito, Mike ha pestato i piedi a un boss della malavita, Ash è un’artista incompresa che attraversa la fine di una relazione, Johnny è figlio del capo di una banda di rapinatori ma vorrebbe cambiare vita, Meena ha un grande talento ma un carattere che le impedisce di esprimerlo.
E’ quindi nel successo, nella prospettiva di un riconoscimento da parte del pubblico, che i nostri eroi vedono una speranza per riedificare il presente e riscattarsi agli occhi dei loro cari: e il soggetto in grado di far sì che questo avvenga è Buster Moon, il quale non costituisce a questo punto il “protagonista” – come si è detto sopra, non se ne può individuare uno nel senso convenzionale – bensì il pilastro ideologico del film.
A partire da umili origini – suo padre era un lavamacchine – è riuscito a realizzare il suo sogno dell’infanzia senza mai corromperlo o abbandonarlo a causa delle avversità, e anche se alla fine le crepe apertesi nel teatro – la materializzazione concreta del sogno stesso, che vive in simbiosi col proprietario e accusa parimenti i colpi dell’età e della sorte – porteranno quest’ultimo a crollare, il sogno continuerà a vivere nel cuore di chi, grazie alle ore trascorse con Buster, sarà riuscito ad assaporarne la purezza.
Il denaro esce di scena e cede il posto alla passione, tanto che alla fine persino l’avido roditore Mike metterà da parte l’orgoglio per dimostrare le sue doti su un palcoscenico improvvisato al fianco dei suoi avversari.
E’ pur vero che la pellicola ha di per sé poco di originale: in Sing troviamo la ben nota epopea del sognatore, la consueta ascesa verso la gloria frenata da un imprevisto, il lieto fine in cui nessuno figura sconfitto, la fantasmagoria di luci e suoni, e via dicendo. A ogni modo però forse è proprio per questo che funziona.
Sing, nonostante la prevedibilità e la sensazione di già visto, riesce a strappare una risata genuina agli spettatori di qualsiasi età, e questa è una cosa non da tutti. Insomma, dopo le deludenti parentesi di Minions e Pets, l’Illumination sembra essere tornata sul binario giusto.