Schermo nero; esplosioni in lontananza; due ultime inquadrature pacifiche che incorniciano un idilliaco scorcio naturale immerso nella nebbia, prima che si scateni l’inferno dell’invasione. Così siamo introdotti nella “nuova quotidianità” della popolazione ucraina invasa dai russi il 24 febbraio del 2022. Sentiamo voci al telefono, c’è chi si chiede ancora cosa stia succedendo, chi chiama i conoscenti, chi infine risponde con certezza: “Sì, mi sa che è iniziata la guerra”.
Conoscevamo già l’ottimo lavoro della documentarista ucraina Ol’ha Zhurba, in quanto avevamo inserito il suo precedente Outside (2022) in una retrospettiva dedicata al nuovo cinema femminile del suo Paese per il Trieste Film Festival. Lì il protagonista era un ragazzo rom alle prese con la storia disastrata della propria vita (in fuga dalla strada e dagli orfanotrofi), e con quella dell’Ucraina (in fuga dalla violenza e dalle ingerenze degli ingombranti “vicini”), ivi compresa la rivoluzione del Majdan cui aveva partecipato, diventandone un volto rappresentativo. Anche un piacevole cortometraggio del 2021 della Zhurba, Dad’s Sneakers, e il fatto che abbia montato alcuni dei più interessanti lavori di altre registe ucraine, come Alina Horlova e Alisa Kovalenko, ci confermano il molteplice talento della giovane artista. Sia nel precedente che in questo suo nuovo lavoro la affianca una ottima produttrice, Dar’ja Bassel’, che con la sua compagnia “Moon Man” sta dando vita ad alcuni dei progetti più interessanti del cinema ucraino degli ultimissimi anni, come per esempio Intercepted di Oksana Karpovych (in cui sentiamo, fra l’altro, le voci intercettate dei familiari dei soldati russi invitarli alla violenza e al furto…), o The Editorial Office di Roman Bondarchuk. Fra l’altro la “Moon Man” della Bassel’ sta lavorando ai futuri progetti di artisti che amiamo particolarmente, come Iryna Tsilyk, Kateryna Hornostaj o ancora Vadym Ilkov, motivo per cui siamo contenti di notare un’ottima continuità qualitativa nelle sue produzioni.
In questa edizione della Mostra la Zhurba ha portato un’ennesima, ma non per questo superflua o ripetitiva, documentazione del dramma del suo Paese invaso: le “canzoni” di questo suo ultimo, ben articolato e compatto Songs of Slow Burning Earth sono i brani musicali del dolore vissuto negli ultimi due anni e mezzo da una popolazione che rischia di perdere tutto, e che canta dunque con toni di malinconia la colonna sonora di una terra bruciata. È la terra bruciata dei campi assolati dell’Ucraina, che vediamo disseminati di pezzi di carri armati russi, fra le centinaia distrutti e bloccati durante l’invasione, ma che infestano una natura ormai per decenni a venire condannata a livelli di contaminazione e inquinamento stratosferici. È la terra del “granaio d’Europa” che risulta però coperto da pannocchie esplose e bruciacchiate, disseminate su campi minati o pieni di crateri quasi lunari. Quei campi che dovrebbero dare il pane quotidiano a milioni di persone, ma che invece sono a volte stati trasformati in fosse comuni di civili (Bucha, Irpyn’, Mariupol’…), o in cimiteri sui quali sventolano tristemente centinaia di bandiere giallo-blu, ognuna corrispondente ad uno dei “difensori” della Patria, come vengono con affetto chiamati dalla propria popolazione i soldati ucraini.
E non è dunque casuale che fra i molti episodi che compongono questa sorta di dolorosa enciclopedia della vita in tempo di guerra ci sia quello della cittadina di Mykolaiv, dove seguiamo la preparazione del pane a ritmi forsennati, anche perché molti forni sono stati distrutti o sono spesso divenuti inutilizzabili per le continue mancanze di corrente causate dai bombardamenti, e senza pane è difficile resistere ad una lunga emergenza umanitaria.
Ma torniamo all’inizio: la Zhurba organizza questo suo reportage sulle varie fasi del dolore e della resilienza secondo due coordinate, cronologica e geografica. Se il primo episodio è quello ambientato alla stazione centrale di Kyiv, presa d’assalto nei primissimi giorni da una moltitudine di futuri profughi, via via che esploriamo i vari angoli d’Ucraina scopriamo fasi successive e differenti metodi di resistenza. Finiamo così con l’avere davanti un reportage spazio-temporale raccolto in una decina di episodi, ognuno dei quali è inquadrato e introdotto con la denominazione del luogo/evento raccontato e con l’indicazione tecnica della distanza dalla linea del fronte.
La linea del fronte è dunque un punto di riferimento costante, ma invisibile, in quanto, a differenza di altri film ucraini (vengono in mente le recenti opere di Kovalenko, Sencov, Manskij…) qui non vediamo combattimenti, trincee o soldati in azione, ma solo la popolazione civile e i servitori dello Stato che fanno il proprio dovere per rimediare alle “normali” catastrofi quotidiane: si vedano le maestre che a Ternopil accompagnano nei rifugi sotterranei i bambini della scuola elementare colti in diretta da un allarme anti-aereo, o i coroner che nell’obitorio cercano di ricomporre corpi esplosi e spezzettati, con l’amoroso e tremendo fine di restituire ai loro cari un luogo di sepoltura che contenga almeno un paio di ossa (forse…) del parente disperso. O, ancora, si veda il “servizio civile” dei dottori del centro di riabilitazione di Leopoli, che provano a rimettere in piedi corpi massacrati, ma ancora vivi per fortuna, privi di una o di entrambe le gambe, esempio fra i tanti della gigantesca mole di nuovi invalidi causati dall’invasione. Ma la società ucraina deve andare avanti in qualche modo, deve camminare ancora, foss’anche su gambe di metallo…
Il movimento narrativo creato dalla Zhurba ha picchi di intensità e momenti di pausa, di relativa serenità, e anche se all’inizio la direzione è quella che ci porta lontani dalla linea di fuoco dei combattimenti, ogni tanto la regista torna indietro sui suoi passi e si riavvicina ai luoghi più pericolosi, le distanze si accorciano, siamo costretti a guardare più vicino, quasi a ricordarci che lo stesso fronte non è affatto un orizzonte fisso e definito dal quale è facile stare lontani, e che nessuno è mai al sicuro. Ché la morte è sempre dietro l’angolo, e bisogna conviverci come un nuovo elemento di “normalità”: riconoscere il lembo del vestito stracciato o un vecchio oggetto affumicato del marito morto è una nuova “competenza” che ogni settimana viene richiesta migliaia e migliaia di volte alle mogli e figlie ucraine.
Per buona parte del film si sceglie il silenzio, sono le immagini di paura e caos a parlare: lotte per fuggire in treno, l’organizzazione di un parcheggio per i profughi, la disperazione dei primi piani di settantenni o madri con bambini a cui è stato tolto di colpo il terreno sotto i piedi, il tutto ripreso con uno stile registico pacato, che privilegia l’immagine fissa, quasi “da archivio”, e documenta il tutto con sicurezza, compartecipazione e senza superflui giochi stilistici.
Uno dei momenti più toccanti, uno dei tanti in cui le voci dei cittadini si acquietano, i commenti dei viaggiatori scompaiono, le telefonate agitate dai palazzi bombardati vengono silenziate, per dare il giusto rilievo sacrale al silenzio dell’ultimo saluto, è l’episodio ambientato attorno ad Ivano-Frankivs’k, in cui assistiamo alla sepoltura di quello che probabilmente è un soldato caduto al fronte. Seguiamo all’inizio la soggettiva un po’ enigmatica di un autista alla guida, davanti al quale, in innumerevole sequenza, si inginocchiano gli abitanti dei villaggi via via attraversati, in religiosa attesa sui bordi delle strade, o si fermano rispettose le macchine che provengono dall’altra direzione. Capiremo, dopo interminabili e stranianti minuti, di trovarci nell’abitacolo di un camion che trasporta una bara, avvolta nei colori nazionali. È uno dei momenti in cui maggiormente si rileva e conferma il talento della regista, che con mezzi semplici, con procedimenti di sottrazione ed equilibrio narrativo colpisce nel segno e trasmette senza parole il dolore di un popolo.
Si diceva che tutti gli episodi fotografano momenti diversi nel tempo e nello spazio dell’Ucraina sotto assedio, come all’interno di un “caleidoscopio” rallentato e intriso di colori freddi. Tutti gli episodi tranne uno: quello, verso la fine, che illustra come contraltare una delle migliaia di esercitazioni militari in spaventose mini-uniformi imposte nelle scuole elementari russe dall’organizzazione “patriottico-militare” della Junarmija, ossia da quel cancro istituzionalizzato dal ministero della difesa della russia al fine di instillare nelle menti e nei comportamenti dei poveri, incolpevoli, bambini russi un’abitudine aggressiva e una predisposizione a diventare carne da macello per le successive avventure imperialistiche del paese.
Le “canzoni” del titolo risuonano dunque con mestizia, sono un “album musicale”, un CD del dolore da portarsi dietro nella memoria, a testimonianza futura della resistenza e resilienza di un popolo, ma anche al fine di far risuonare, per lo meno nel finale, qualche accento più melodico e speranzoso, quello dei ragazzini ucraini che vengono interrogati sul futuro e su come se lo immaginano dopo la guerra: “Quando sarà il futuro?”. “Domani, fra un mese, fra vent’anni…” rispondono le varie voci. Il futuro è ora, se si fanno risuonare le voci e le immagini dell’Ucraina che resiste.