La Palma d’Oro per I, Daniel Blake non ha impedito a Ken Loach di riproporre tre anni dopo un film simile nella forma e nella sostanza per continuare a parlare del proletariato inglese e della lotta per la sopravvivenza che affrontano ogni giorno circa due milioni di persone in tutto il Regno Unito.

Come il film precedente anche Sorry we missed you si apre con un black screen e la voce del protagonista in sottofondo durante un colloquio di lavoro, lo schermo torna a illuminarsi quando è il futuro capo a parlare, come a far capire subito allo spettatore chi conta in quel mondo e chi no. È l’ennesimo colloquio per Rick Turner, che finalmente approccia un impiego con entusiasmo, convinto di poter uscire definitivamente dalla crisi (siamo negli anni ’10) e di riuscire a comprare una casa con un mutuo. Lui lavorerà 14 ore al giorno come corriere a domicilio, ma i conti comunque non torneranno e non vi saranno affatto miglioramenti perché la situazione è molto più complessa.

Si scrive Ricki Turner, si legge Antonio Ricci. Sorry we missed you è uno dei film più espliciti e diretti del Ken Loach degli anni 2000, una sorta di piccola indagine sociologica sulle condizioni del nuovo prototipo del lavoratore alienato, e su come esse poi incidono sulla sfera affettiva delle persone, fino al punto in cui il tempo non sembra più esistere; non a caso è impossibile trovare nel film un orologio o un orario. Il protagonista nemmeno produce, si limita a offrire un servizio colmando la distanza tra il prodotto e il consumatore: non ha un orario, va avanti finché può, e non ha strumenti, perché il furgone o si possiede già o lo si affitta all’azienda perdendo metà della paga. “Paga”, non “salario”, in quanto “lavoratore autonomo”. Tutti termini che il responsabile dello stabilimento di smistamento dei pacchi (e capo di Ricky) Maloney utilizza neanche fossero formule sciamaniche per presentare l’assenza di diritti come la nuova frontiera dell’occupazione.

In Maloney si incarnano tutti i problemi presentati dal film, lui spicca come l’araldo inconsapevole di un’ideologia oppressiva che divide il mondo intero in vincenti e perdenti, idealizzando se stesso come una sorta di genio incompreso quando è poco più che un sonderkommando. È anche il personaggio più riuscito dello script di Laverty, per come riesce a essere irritante in ogni singola situazione e per come accentra (a livello simbolico) ogni tematica presentata da Loach, partendo dalla dinamica homo homini lupus che si instaura sul luogo di lavoro fino all’impossibilità di non compromettere la propria sfera affettiva per rispettare la tabella delle consegne. Maloney è il Cerbero a guardia di un sistema dove si paga per lavorare, dove devi risarcire i beni non assicurati quando ti aggrediscono e ti rapinano, e dove dipendi in tutto e per tutto da una macchinetta che ha più considerazione di te.

Di pari passo con questa via crucis, Loach illustra per episodi anche la deriva della vita familiare dei Turner, che culmina quando il figlio adolescente Sebastian scappa di casa a causa del difficile rapporto con il padre, inevitabilmente assente. Questa sezione di film, nonostante sia la più potente dal punto di vista emotivo, fa trasparire qualche falla nel ritmo della narrazione; manca l’usuale sagace ironia di Loach nel mettere in scena la vita quotidiana di un nucleo familiare, che presto diventa eccessivamente compartimentata, soffrendo troppo la rigida divisione in episodi e finendo per dare vita a una mise frettolosa.

Paradossalmente è più incisivo – anche a livello drammaturgico – il tentativo di guardare dietro le quinte del commercio online. In questo senso si tratta di uno dei film più duri e diretti dell’autore inglese, ma è probabilmente anche il meno raffinato, un po’ povero dal punto di vista filmico. Loach riesce a rimediare in parte con la solita splendida scelta e sapiente direzione di attori non professionisti, servendosi della loro spontaneità e del loro accento mancuniano. Sorry we missed you racconta di un lavoro precario che precarizza a sua volta la vita intera dei due protagonisti. Se Rick è attivamente il centro empatico e narratologico dell’opera, Abby dà voce a chi è invece costretto a subire: lei non ha nulla sotto controllo, deve pazientemente sopportare le difficoltà a cui viene messa di fronte (che spesso fanno leva sul suo senso di colpa) da parte dei pazienti e soprattutto dello loro famiglie, adattarsi ai programmi forniti ed evitare di trattare le persone come tali, in quanto “sono solo clienti”, in un crescendo di frustrazione.

Sorry we missed you prende il titolo dalla scritta sulla ricevuta che i corrieri devono lasciare quando non trovano il destinatario del pacco, come a ricordare che gira tutto intorno alle consegne. È su una ricevuta di quel tipo che Rick nel finale scrive quello che sembra un inquietante messaggio d’addio, costretto a un martirio volontario pur di non far finire la sua famiglia in mezzo alla strada, accettando un lavoro che lo obbliga ad accollarsi ogni rischio a rinunciare a tutto a beneficio – se va bene – di un’entrata regolare. Non si tratta certo del miglior film di Loach, né del più cattivo né del più particolare né del più ispirato, ma è sicuramente un’aggiunta preziosa che espande il significato complessivo della filmografia del regista, e racconta senza fronzoli – quasi con un neorealismo moderno – una parte di realtà che è comodo fare finta di non vedere. Sorry we missed you sarà un film semplice e didascalico, ma avercene didascalie del genere.