“Strahinja (As Far as I Can Walk)” di Stefan Arsenijevic

Dall’Africa all’Europa, la strada dei migranti non è solo difficile e piena di pericoli, ma può avere anche approdi sostanzialmente diversi. Ababuo e suo marito non riescono ad arrivare nell’Europa “di serie A”, ma rimangono intrappolati in quella sorta di limbo che è la Serbia, sulla rotta balcanica che può rappresentare o l’ultimo momento di attesa prima di entrare nella Comunità Europea o una durevole no man’s land che non annulla ma neanche risolve le aspirazioni dei profughi, economici o politici che essi siano.

Stefan Arsenijevic è un regista belgradese nato nel 1977, prima diplomato poi docente alla Facoltà di Arti Drammatiche della capitale serba. Ha girato diversi corti, anche premiati a Berlino o nominati all’Oscar, uno poi in particolare era inquadrato all’interno di un progetto a più mani datato 2005, Lost and Found, in cui altri episodi erano stati affidati ad alcuni talenti poi esplosi chiaramente a livello europeo, come Christian Mungiu, Kornel Mundruczo o Jasmila Zbanic. A differenza di quei suoi allora giovanissimi colleghi, Arsenijevic non si è ancora affermato in modo definitivo, essendo forse un autore a “lenta maturazione”: chi scrive, ad esempio, ricorda il suo esordio sulla lunga distanza, Love and Other Crimes, passato alla Berlinale del 2008, come storia sentimentale e urbana ambientata in un quartiere della nuova Belgrado di inizio millennio, priva però di particolari fiammate poetiche che la elevassero sulla media. La lunga attesa ha sicuramente giovato all’autore, che con questa sua opera seconda fa incetta di premi al Festival di Karlovy Vary 2021, e soprattutto si porta a casa il Globo di Cristallo principale, per il miglior film.

Di sicuro va detto che il buon Stefan ha imparato a condensare più livelli semantici e a farli dialogare in maniera non banale: qui la vicenda di emancipazione di una coppia di “migranti economici” viene letta sullo sfondo (quasi sua rilettura aggiornata) di un antico canto epico della tradizione slava del sud, appunto quello Strahinja Banovic che dà il titolo al film e motiva il soprannome del suo protagonista principale. Questi infatti non usa più il suo originale nome ghanese, e viene rinominato affettuosamente dai suoi compagni di squadra come l’eroe epico serbo del XIV secolo, all’interno di una ridefinizione identitaria che sembrerebbe procedere positivamente verso una perfetta integrazione, ma che a sorpresa viene fatta deflagrare dalla inarrestabile brama di realizzazione personale della sua amata compagnia. Il ragazzo sta infatti per realizzare il suo sogno di diventare un calciatore professionista e di ottenere un permesso di soggiorno più stabile, ma la sua dolce metà non accetta di vivere di rendita e di gloria riflessa: ella è infatti una attrice teatrale, che però difficilmente potrebbe fare carriera in una lingua e in un paese che non conosce.

Qui si presentano già diverse, interessanti e non banali faglie di differenziazione: mentre per Strahinja basta un talento fisico, materiale (giocare a pallone si può in qualunque paese, al di là delle incomprensioni linguistiche), la volitiva Ababuo sogna di arrivare nell’Inghilterra dei suoi amati classici per poter mettere a frutto un talento “immateriale”, per creare non gol, ma prodotti dell’ingegno. In questa coppia si realizza poi un fruttuoso capovolgimento/negazione delle disuguaglianze di genere: lui, sostanzialmente soddisfatto e inquadrato, è costretto a seguire e inseguire una lei ribelle e contraria all’omologazione, restia a subire l’atavico rapporto di soggezione e dipendenza alla carriera e alle decisioni del maschio.

Arsenijevic ha raccontato nelle interviste di avere messo a frutto anche delle esperienze personali: nei primi anni Novanta anch’egli, come molti cittadini ex-jugoslavi, ha conosciuto lo status di cittadino di serie B, conoscendo da vicino anche la guerra, e ha voluto proiettare questa sua esperienza emotiva nell’attuale e forse ancor più tragica versione delle disuguaglianze civili ed umane, che vede proprio i Balcani attraversati da decine di popolazioni alla ricerca di una vita che possa essere davvero chiamata tale. Il regista ha così incontrato personalmente molti profughi reali, che ha poi utilizzato molto bene anche come comparse e attori secondari, sfruttando anche la loro dura esperienza personale per evitare rappresentazioni errate e per ottenere un alto tasso di realismo nella ricostruzione delle loro peripezie. Ma, al di là della filologia drammaturgica plasmata sull’attualità, la marcia in più di quest’opera seconda sta nella proiezione metaforica/allegorica su tempi e luoghi altri, universali, ottenuta con dei ripetuti inserti/citazioni tratti dal summenzionato poema epico medievale. Questi “a parte” scandiscono gli episodi del nuovo “epos migrante”, inframezzano la narrazione principale e mettono in parallelo la vicenda del principe serbo Strahinja e la sua ricerca della sposa rapita dal nemico turco con il tentativo del profugo ghanese di ritrovare la giovane e ribelle moglie, che è fuggita senza avvisarlo dal campo d’accoglienza in Serbia insieme ad un gruppo di “migranti di serie A” siriani. Questi ultimi, infatti, in forza delle loro tragedie belliche hanno più chances di ottenere un passaggio verso stati più ricchi rispetto a chi cerca “soltanto” un lavoro e mezzi di sussistenza migliori. Proprio la riflessione su diverse categorie e status che suddividono coloro che arrivano in Europa secondo classifiche e “quantità di diritti” è una delle linee interpretative che Arsenijevic vorrebbe evidenziare mentre si seguono le peripezie del nuovo Strahinja nero lungo confini, territori, pattuglie di polizia e campi profughi. Va detto però che proprio questo aspetto, più filosofico e universale, viene risolto in maniera meno convincente e più volontaristica, con riflessioni ugualitarie e dichiarazioni a tavolino che forse andavano inquadrate meglio nel linguaggio filmico.

Ad ogni modo, rispetto a trasposizioni più convenzionali e ad adattamenti storici pedissequi alla contemporaneità, l’idea di far dialogare le attuali migrazioni balcaniche con lo scontro fra turchi e cristiani che portò alla famosa battaglia del “Campo dei Merli” del 1389 è quanto meno originale. Si pensi che il precedente passaggio sullo schermo del medesimo epos slavo aveva visto interpretare Strahinja addirittura da Franco Nero, in una versione in costume girata dal croato Vatroslav Mimica (supponiamo con piglio più tradizionalista…) che era passata alla Mostra di Venezia nel 1981 (titolo internazionale The Falcon). A maggior ragione si apprezza dunque il fatto che Arsenijevic non solo abbia rifuggito una lettura anti-islamica o demonizzante, ma che abbia addirittura capovolto per certi versi il rapporto fra vittime e carnefici, fra giusti ed oppressori, fra viaggiatori e residenti. In questo caso sia i due sposi che il supposto rapitore (il profugo militante interpretato dall’attore siriano Maxim Khalil, ora realmente rifugiato in Francia) sono dalla stessa parte, divisi non da necessità ed aspettative, ma solo da una categorizzazione burocratica che privilegia come destinatari di aiuto e detentori di diritti solo quanti scappano da una guerra e non “semplicemente” da condizioni economiche disastrate. Il regista serbo non tratta i suoi protagonisti da fuggiaschi omologati, ma da individui molto diversi l’uno dall’altro, per i quali l’unico elemento in comune è la (passeggera?) condizione di profughi.

In sostanza, questo apologo sull’impossibilità di unire amore e libertà, di conservare pacificamente la propria identità e i propri sogni soffre in fondo di alcune semplificazioni retoriche e scorciatoie narrative non perfettamente risolte (lo stesso parallelo con l’epos medievale non è troppo comprensibile a chi si limiti a vedere il film e non sia informato sul contesto extra-filmico), ma il risultato che ne esce è un buon prodotto internazionale “da esportazione” dagli alti fini educativi ed umanitari, che probabilmente farà indiavolare le torme di conservatori, sovranisti o perfino suprematisti bianchi che in Serbia o ad altre latitudini si scandalizzeranno nel vedere accostato un ottimo attore di pelle nera come Ibrahim Koma (che ha imparato appositamente la lingua per poter recitare in serbo e ha conquistato il Premio per la migliore interpretazione) al nobile cavaliere slavo ortodosso nemico degli ottomani, invasori e “infedeli”. Già anche solo per questo vale la pena seguire e camminare dietro al buon Strahinja africano e seguire il suo esempio di umanissima ostinazione e di perdono contro ogni logica.

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