Peiying e Junyang sono una giovane coppia giocoforza distrutta dal rapimento della figlia duenne Bo. L’indagine procede a rilento e giunge a un punto di svolta solo quando all’attenzione dei due arrivano alcuni dvd anonimi contenenti riprese disturbanti della vita di entrambi, nei momenti in cui la bambina era ancora fra le loro braccia, in casa o al parco, e vivevano l’esistenza di una normale famiglia.

Junyang si ritrova nella stessa situazione del Georges di Caché, non può che acconsentire a una paziente danza in circolo per giungere a un confronto con il voyeur che potrebbe aver rapito la figlia e sembra essere ossessionato in prima istanza da lui, pare volerne esporre i vezzi segreti che minerebbero l’equilibrio familiare. Il rapimento potrebbe persino non avere importanza allora, l’unico fattore a contare qualcosa è la possibilità di vedersi, ancor prima che riconoscersi vicendevolmente. C’è chi guarda e chi viene guardato, chi sorveglia e chi viene sorvegliato. Quis custodiet ipsos custodes? Non è la sorveglianza a essere una forma di esercizio del potere, ma lo sguardo che la precede a plasmare un primigenio atto di violenza. Sei anni dopo A land imagined, i due uomini che erano l’uno il sogno dell’altro collidono nello sguardo dell’Altro a Venezia 81 – la perla dell’anonimo concorso di quest’anno.

I confini di Stranger eyes sono labili. La transizione dal neo-noir al dramma non è mai limpida, così com’è malfermo il limine tra riflessione sociopolitica e ragionamento sulla natura dell’immagine. E anche il tempo viene disordinato, o almeno la sua percezione si liquefa. Il già citato Haneke di Niente da nascondere è invece un’ispirazione chiara, declinata in accordo alle rivoluzioni già digerite dalla modernità del controllo panottico e della trasformazione in immagine-dato dell’intero piano di esistenza (ben infiocchettate da Shoshana Zuboff, ad esempio); e senza impaludarsi in un riepilogo critico della concezione di pulsione scopica nella storia del cinema, risulta lampante come il procedere della narrazione prenda le mosse dallo Heroes di Bowie (e il suo celeberrimo videoclip) molto più di quanto non assorba la lezione hitchcockiana-depalmiana.

Nel calderone di Yeo c’è spazio per la consapevolezza dell’allisciamento prodotto nel quotidiano dall’onnipresenza dallo schermo, che sia quello del sistema di videosorveglianza della città-stato regimefriendly di Singapore o quello dei dispositivi elettronici di uso comune: Peiying – Anicca Panna – è una streamer, vive del proxy della sua immagine e la sua relazione con gli altri è sempre mediata da tale proiezione (“io voglio essere vista”), mentre il marito – Wu Chien-ho – possiede una relazionalità fisica con lo spazio e i corpi, è in continuo commercio con le cose del mondo, identificantesi in esse; in questo senso è presente l’eco schnitzleriano di Eyes wide shut, e non solo nelle dinamiche di coppia dacché il rapimento della piccola, come il timore del tradimento in Kubrick, assurge presto a pretesto di una catabasi decostruttiva nell’atto di osservare. L’arcologia cibernetica di consumo visivo cooptante e alienante implica la preminenza della componente visuale nelle forme di connessione con gli altri, al contempo lo sguardo pietrifica e crea uno specchio attraverso il quale chi guarda e chi viene guardato performano un atto che non è mai attivo/passivo bensì riflessivo/trasformativo: riflessi, modelli o (auto)rappresentazioni forgiano e disfano l’identità di ciascuno.

Ancor prima che dalle registrazioni clandestine, la genitorialità immatura e abulica dei due è ghermita senza pudore dalle telecamere dello spazio pubblico e da quelle installate dalla polizia nel plesso residenziale per stanare il guardone. Questi – l’inclito Lee Kang-sheng in un ruolo, quello di Lao Wu, nemmeno così differente da quelli cucitigli addosso da Tsai Ming-liang – non ha nulla a che fare con il sequestro, e anzi la sua ossessione dapprima si diluisce nello stalking ai danni di Peiying ed evolve in uno scontro/raffronto con Junyang dipoi; il guardone diventa guardato, è così spiato, trasfigurato in immagine. L’oscuro scrutare diventa studio e quindi mimetismo. E c’avvediamo delle simmetrie sinistre frai due in un deliquio di ecoprassia reciproca: è il gioco delle parti. Allora avviene il collasso, perché l’uno arriva a esistere nello sguardo dell’altro e in una sala giochi dal richiamo twinpeaksiano, analoga a quella della rivelazione del film precedente, i due si rendono conto di essere lo stesso: Selbst (cfr. Schnitzler).

Junyang è Wu a distanza di spannometrici vent’anni. A richiamarlo v’è, frai vari fattori, innanzitutto il principio di oftalmopatia della madre – Vera Chen/Maryanne Ng-Yew –, presente nello stesso quadro temporale in due entità diverse, la più anziana delle quali evoca spesso la moglie assente di Wu, cioè Peiying; a sua volta Peiying ha lasciato Junyang/Wu e dunque il primo dei due con l’età si trasforma suo malgrado nel secondo (nelle vesti di stalker) per seguire da rispettosa distanza la figlia – Xenia Tan da adulta – portatagli via dall’impaurita consorte, che arriva a collimare con Bo e così viene vista per la prima volta dopo anni di trascuratezza, traslata nel rapimento della figlia persa di vista proprio dal padre al parco. Tutto si tiene.

La topologia di Stranger eyes si snoda sulla superfice del nastro di Möbius (il parallelo con Strade perdute s’affaccia spontaneo), diviene un oggetto impossibile penrosiano che acquisisce forma nel tramite dello sguardo dello spettatore mentre esso segue daccapo lo sguardo altrui, ha corpo squisitamente cinematografico perché esiste soltanto nella relazione visuale tra soggetti che si cosificano a vicenda in immagini – d’altro canto è quanto avviene nel cinema. Si presagisce un lynchismo latente nell’affiorare per vie traverse di un modo surrettizio di pensare la porosità dei fenomeni alla facoltà dell’immaginazione, qui scompaginata in un senso singolare. Yeo del resto può permettersi di ignorare lo scorrere naturale degli eventi e anzi lo torce, perché alcuni di essi vengono attraversati da una doppia semantica, e nella fabula e nell’intreccio (una volta ricostruito). Le immagini sono immortalazioni e pertanto ignorano la significatività che il tempo conferisce alla vita umana, e pertanto diventano manipolabili dal cinema a questa maniera, tanto per cominciare; o diventano collante unanime dell’interazione con l’altro nello spazio interdipendente degli strati tangibili o virtuali; o diventano dispositivo politico per soggiogare la realtà alle striature del potere di controllo, a cui viene ricondotta la massa canettiana del volume dell’informazione (in senso quasi fisico, ovverosia di perturbamento dell’uniforme).

Il mistero viene risolto ben prima del finale con ostentata anticlimaticità: la bimba ritorna a casa, e il come neppure ci pertiene, però preme che venga sottratta allo vista sia del padre, scaturendo de facto il conflitto autentico della componente narrativa, sia dello spettatore, ribadendo la gradazione speciosa dell’elemento giallo nel film tout court. In seno all’ambigua riconciliazione s’implementa la dottrina perversa del detective Zhang quando spiega alla giovane nonna che non serve mica più indagare per essere bravi investigatori oggigiorno, al contrario son sufficienti flemma e accortezza, perché le telecamere sono dappertutto e a nessun patto la vigilanza onnipervasiva può essere elusa. Ogni ricerca verrà surrogata da una rassegna. Già all’inizio il poliziotto fissava irretito la fresca e ancora normovedente lei dalla sala monitor del commissariato e ne scorgeva alcuni tratti intimi, imparando a conoscerla (“chi siamo se nessuno ci vede”); Zhang ritiene che nessuno sia veramente innocente perché non possono più esistere violazioni che manchino di un’agnizione oggettiva, così il fatto che oramai tutto sia oggetto di uno sguardo (che sia postumano poco importa) rende chiunque colpevole a prescindere, privato di libertà e costretto invece in un’immagine. Quivi convergono le due anime del film, assieme presa di coscienza democratica nell’epoca della sorveglianza digitale ed esplorazione del privilegio trascendentale dell’occhio.

Non serve neanche soffermarsi sulla lezione registica del cineasta singaporiano quando monta in pergamo affettando l’insistenza di soggettive o semi-soggettive e l’indiscreta inframmettenza della sua retina meccanica. La proposta disgregata che incamera prospettive di macchine diverse su diversi livelli non solo replica l’angolazione privilegiata e nascosta in cui si pongono tutti i personaggi attanti, in modo da poterli vedere come di nascosto mentre a loro volta osservano non visti qualcun altro, ma a ogni slittamento del confuso cronotopo diegetico fa corrispondere una ricombinazione della catena di montaggio dell’inveramento di ciascuna immagine. La mdp riprende i dvd riprodotti alla tv o l’output digitale delle varie telecamere a circuito chiuso, a seconda dei casi ne palesa la metaripresa o la nasconde nel montaggio o ne mischia i piani, si sovrappone a un campo visivo e spesso lo manipola, svelando senza remore la corrispondenza tra voyeurismo e mezzo-cinema per realizzare un inno alla responsabilità cui lo sguardo chiama: la responsabilità nei confronti dell’Altro, dal micro del versante etico al macro della sponda politica, erotta dalla condanna del/al guardare. Dal lato antitetico alla rassegnazione alla china totalitarizzante dell’attualità v’è una sorta di bilanciamento tratteggiato dalla speranzosa parabola di ricongiungimento familiare.

Huis clos ma yeux ouverts. E non è affatto semplice concepire un’opera a partire dall’assimilazione nel tessuto narrativo dell’identificatività traumatica e impetrante dello sguardo in sé; anzi, a maggior ragione s’intravede una cheta ironia in Stranger eyes a giudicare dalla libertà che riesce a dispiegare nella costruzione dei nessi logici, a sfregio della grammatica in merito alla quale ragiona e pure in assenza sottintesi, proprio estinguendo le ripercussioni sulla nozione speculativa di libertà propagate dagli assunti che ne intelaiano l’ossatura di base. Film da vedere se ce n’è uno, ma consapevoli di non poter non esser guardati di rimando.