Nel 2015 Hong Kong partoriva un piccolo progetto antologico destinato a diventare in breve tempo il film dell’anno. Si trattava di Sap nin, un film in cinque episodi episodi legati fra loro soltanto dall’ambientazione distopica e dall’ambizione di proporre una riflessione sull’attuale situazione della regione, provando a immaginare fino a che punto l’evolversi degli eventi nei successivi dieci anni avrebbe cambiato Hong Kong. Tralasciando il fatto che sembra ne siano bastati cinque per far esplodere alcune contraddizioni tra il mainland e la vecchia colonia britannica, il film naturalmente fu un successo strepitoso entro i confini “patrii”, e naturalmente venne censurato nella Cina continentale. Fece il giro del mondo con il titolo Ten years, arrivando anche in Italia nel 2016 a Udine ottenendo globalmente un discreto riscontro e costituendosi negli anni successivi come il primo tassello di una grande prospettiva panasiatica sul tema del potere – se interessa, ora è disponibile in due parti su Dailymotion, lo YouTube francese.

A cavallo dell’ultimo biennio hanno fatto seguito, sostenuti dalla stessa casa di produzione,  i corrispettivi di Taiwan, Giappone e Thailandia. Noi in questa sede parliamo di quest’ultimo, che si differenzia sia per qualità complessiva, sia per il proposito di costituire una sorta di manifesto della new wave thai. In difformità con gli altre opere, Ten years Thailand non è il frutto della collaborazione tra registi emergenti ma tra autori affermati e centrali nella scena cinematografica nazionale e internazionale, almeno per tre quarti. La situazione thailandese è ancora più complessa di quella di Hong Kong, negli ultimi novant’anni mal contati ha vissuto diciannove colpi di stato (tra riusciti e tentati), l’ultimo solo nel 2014, quando una giunta militare ha preso il controllo del paese  con la forza nel disinteresse generale delle potenze occidentali. Il fulcro del film non è tanto la repressione del dissenso quanto il sistema che ne nega alla radice e anestetizza i motivi che lo costituiscono.

Il tema del sonno indotto è infatti carissimo a Weerasethakul, il cineasta più noto e importante del quartetto che chiude il film con un corto estremamente affine al suo Cemetery of splendour, in cui una Thailandia rurale e quasi neorealista è circondata da scavi, lavori edili e restauri che sradicano gli originali e lo rimpiazzano con qualcosa di simile ma finto, alzando nel contempo una quantità immane di polvere che sporca le riprese e posiziona un ulteriore filtro tra lo spettatore e l’inquadratura, metafora di microcosmo dove nulla è più osservabile distintamente e in cui non si respira più: non solo non c’è aria in Song of the city (questo il titolo del quarto corto), non c’è nemmeno movimento, persone e oggetti sono statici, intossicati dal pulviscolo e a disagio all’aperto perché non esiste più uno spazio veramente libero e respirabile. L’unica alternativa risiede nell’acquisto di maschere e bombole per l’ossigeno, che assuefanno, narcotizzano e conducono infine al coma, trasformando le persone in vegetali e addormentando la coscienza di un paese.

Il corto di Weerasethakul nella sua apparente semplicità allegorica racchiude in sé tutti i temi degli altri tre, fossilizzando in un’immagine una sensazione generale che gli altri registi hanno reso con modalità più specifiche rifacendosi ai nuclei tematici della distopia orwelliana, il cui capolavoro 1984 è citato all’inizio, riportando l’attenzione del pubblico al controllo del tempo e inserendo il film nell’ambito di una “creazione del presente” che rivaleggi con quella della dittatura e ne combatta la narrazione – in questo senso si può parlare di manifesto, Ten years Thailand va a configurarsi come la dichiarazione d’intenti di un fronte d’opposizione. E Song of the city unendo in se stesso un episodio e l’epilogo rende palese questo intento nel risaltare le analogie fra le varie parti del film, diversissime e sovrapponibili solo grazie all’ultimo atto; partire dalla fine, come percorrere un labirinto a ritroso, è più funzionare per svolgere l’invisibile fil rouge che attraversa l’intera pellicola.

I tre episodi precedenti appunto sono più settoriali, esplorando un particolare aspetto della distopia così com’è classicamente intesa, in accordo con le chiavi estetiche dell’autore e il suo immaginario filmico consolidatosi negli anni. In breve, Assarat si conferma un grande allievo di Hong Sang-soo e con un dialogo imbarazzato in b/n tra due innamorati che si devono separare offre un delicato esempio di come una dittatura, imponendo la sua neolingua, finisca per eradicare la cultura di un paese snaturandone il linguaggio per modellarlo secondo i propri interessi, lasciando una coppia di ragazzi letteralmente senza parole poiché non hanno gli strumenti emotivi per comprendersi mentre, di pari passo, compone una delicata ode a ciò che tra dieci anni sarà proibito magari, come far piangere i militari, collocandosi a metà fra nostalgico e speculativo in un controsenso dato dal paradosso temporale del 2025.

Di contro Sasanatieng e Siriphol scelgono un approccio più postmoderno. Il primo offre con la sua mise molto pop un’allegoria chiara dove il protagonista – novello Winston Smith – è l’unico umano in un mondo popolato da gatti antropomorfi da cui deve nascondersi mascherando il proprio odore: da un lato, esattamente come Winston, il nostro è alle prese con il vano tentativo di sfuggire allo sterminio ai danni della sua razza convinto di essere un’eccezione salvo poi finire nelle maglie della rete preposta per catturare quelli come lui, dall’altro Sasanatieng dà vita a una visione della Thailandia come a una deriva grottesca e anche un po’ tragicomica dello stato di natura – homo homini felis. Siriphol invece, l’unico trai quattro a non essere un regista cinematografico ma un video-artista, si lancia in un delirio lisergico e semi-animato sulla propaganda del totalitarismo moderno, in cui la produzione stucchevole per il controllo del consenso, rappresentata come la parodia di uno spot televisivo, finisce per fondersi con gli organi della dittatura stessa attraversando i piani di realtà, delegittimandola e ridicolizzandola, fino al punto in cui la reggente dell’esercito stessa viene inclusa nello schema come una schiava qualsiasi nel perverso gioco psico-sessuale che questo terza cortometraggio.

Ten years Thailand è una composizione appositamente dissonante che si dimostra perfettamente in linea con l’originale Ten years e anzi, aggiunge qualcosa in più, confermando la volontà di proporre un progetto collettivo e internazionale dai comuni obiettivi politici senza per questo snaturare il discorso cinematografico, per quanto poi sia complesso dare un giudizio unico su un’opera antologica, al netto del quale il film rimane indiscutibilmente valido sotto il punto di vista del sentimento da cui è animato e per come rende possibili passione e partecipazione.