La seconda stagione di una qualsiasi serie TV è spesso più importante della prima, in termini di qualità espressa quantomeno. Se una prima annata d’impatto, infatti, che vada subito al sodo e non dedichi troppo tempo alla costruzione del microcosmo ove si svolge, è il primo obiettivo di una qualsiasi produzione per il piccolo schermo, specie vista la volatilità della situazione televisiva oggi (basta pigiare un tasto per provarne un’altra se quella presente non acchiappa già con i primi minuti), la seconda è il luogo della riconferma, della solidità. David Simon ha già dimostrato ampiamente di essere un martello in queste situazioni. Il suo stile di scrittura quadrato, efficace nella sua semplicità e ambizioso il giusto, con grandissima libertà lasciata ai mestieranti del canale e capace di far apprezzare svolazzi e chicche le poche volte che ve ne sono non tradisce mai. The Deuce 2 si conferma un prodotto perfetto per quelli che sono i suoi obiettivi più o meno contenuti e per la complessità non tanto d’intreccio quanto di descrizione delle fase di transizione sociale e culturale che sono stati gli anni ’70’-’80 nell’America metropolitana.

Il plot

Perché sì, mentre là fuori prendeva forma il brodo di coltura che avrebbe portato Reagan alla presidenza, mentre sembrava possibile una nuova edizione del sogno americano e gli USA lentamente marcivano al di fuori delle grandi città, New York diventava il porto d’attracco per chiunque volesse per sé una seconda occasione. Oramai tutti i personaggi che abbiamo imparato a conoscere nel corso della prima stagione sono alla seconda occasione, quasi sei anni dopo. Vincent è sempre più stretto nella morsa della mafia e la sua vita ormai è una continua tensione tra convivere con se stesso giustificando – anche con Abby – le azioni recenti e l’impulso di scappare da tutto e tutti, il fratello Frankie è la solita macchietta capace solo di trovare modi assurdi per arricchirsi e modi ancora più assurdi per sperperare quanto guadagnato, Eileen si sta rifacendo una vita nel mondo del porno come “autrice”, Lori ha la strada spianata per il successo ma rimane vittima della sua condizione psicologica. In questo mondo dove la concezione della pornografia sembra essersi ulteriormente evoluta aggiungendo accezioni culturali e sociologiche al proprio statuto di dirty business, va in scena una realtà complessa e corale che vede, nonostante tutto, una serie di personaggi alla deriva.

La serie

Alla deriva, in quel di New York, dove è tutto perfetto e chiunque può ottenere qualunque cosa desideri quando lo desidera? I personaggi-simbolo che conosciamo sono stati decisamente lasciati indietro in questi cinque o sei anni, e questa stagione si propone il compito di dimostrarlo. Ci eravamo lasciati con la morte di Ruby e i prodromi della rinascita di Candy/Eileen, un finale agrodolce che però lasciava intravedere un futuro positivo per la strada più famigerata di New York. Ebbene, se così è stato, riguardava il lasso di tempo scavalcato con il timeskip e non il 1977. L’impostazione della serie di fatto radicalizza quella del 2017, facendo corrispondere a un’azione sempre più corale un intreccio circolare ed equilibrato nella gestione di trame e sottotrame. Di fatto la struttura portante si sviluppa attraverso l’evoluzione del mondo del porno e della pornografia, del sesso e della prostituzione attraverso uno sdoppiamento che vede da una parte il filmmaking di Red Hot, il pretenziosissimo e temerario progetto cinematografico di Eileen che vorrebbe mirare a rivoluzionare il cinema per adulti, e dall’altra il cambiamento radicale, sul un piano strettamente economico, della realtà dei protettori e dello sfruttamento della prostituzione.

Questa bipartizione più o meno netta consente di slegare la narrazione dalle singole azioni e decisioni dei vari personaggi per andare a dipingere un quadro d’insieme dato essenzialmente da sensazioni di spaesamento e inadeguatezza, specialmente nel momento in cui viene a galla la natura di alcune situazioni. Con un lato comico che si fa più rarefatto diminuisce anche il minutaggio della seconda ruolo di Franco, Frankie diventa oramai caricatura e tappabuchi nella trama principale, e di conseguenza Simon ha più tempo da dedicare al’introspezione di Vincent, emblema di quella parte di società che non s’è posta scrupoli di fronte al guadagno facile e ora ne paga le conseguenze, risucchiata in un sistema di mafia e corruzione che mai verrà smantellato; e bisogna attendere più di un lustro perché le persone come Vincent possano realizzare che in fondo non volevamo altro se non divertirsi un po’, col senno di poi è facile per loro capire come in fondo aspirassero solo al conforto della casetta borghese con tanto di mogliettina premurosa, prole numerosa e animali domestici assortiti.

Altro discorso di punta (eppure sempre trattato con implicita eleganza) inerente a questo sviluppo è quello del rapporto trai sessi. Nonostante una mezza rivoluzione i Vincent, i Bobby, e via dicendo testimoniano una volta ancora di appartenere a una generazione ancorata (il figlio del secondo sogna, invece, con convinzione e ingenuità) a un certo modo di concepire le relazione fra uomo e donna nel vecchio modo, al di là del progressismo vantato. Un rapporto perfettamente paritario è un miraggio, il montaggio alternato della conclusione della premiere illude solo. I personaggi di quella sequenza erano appunto i soliti noti: Vincent e Abby, Eileen e il suo amante. Del primo si è già parlato, ma ancora più d’impatto è la serie di scelte di Abby, sempre più ipocrita (perché del coinvolgimento della criminalità aveva sempre avuto sentore), sempre più ancorata a quei principi studiati all’università che sa essere giusti ma non capisce perché, tanto coraggiosa nel perseverare in questa direzione quanto misera nel godersi una situazione di superiorità senza sfidare troppo il mondo che cambia. In fondo nemmeno lei capisce granché.

Eileen invece, dismessi i panni di Candy può confrontarsi apertamente con questo mondo evoluto, ma, oltre all’affaire Red hot particolarmente interessante per veicolare il riflettersi di alcuni cambiamenti culturali (il pdv femminile come ripresa soggettiva, gli uomini di colore come normalità nel cinema porno, la volontà di ricercare l’effetto artistico), quello che più permane è l’ambivalenza del percorso che da un lato segna un progresso assoluto, mentre sul versante opposto delinea un’involuzione ancora più decisiva. Allo stesso modo il personaggio che grazie a Gyllenhaal vanta la migliore interpretazione di tutta la serie è frustrata perché circondata da persone che non la comprendono – il suo produttore, lo stesso Frankie la seguono per i soldi ma non ne condividono l’entusiasmo – e di conseguenza è davvero avanti rispetto al contesto, ma non così tanto da intravedere che l’oggettivazione da cui la donna si sta emancipando è una padella che la fa scivolare verso una brace ancora più mercificante: c’è un qualcosa che rimane, la pornostar non è affatto libera anche se questa è l’idea che serpeggia insistente in molte menti in The Deuce, permane in lei il laccio psicologico della prostituta.

Lori e Darlene ne sono esempi perfetti, con la prima che continua ad avere paura di un C.C. scomparso e non riesce in alcun modo a liberarsi da quel dominio prima di tutto ideologico che il pappone aveva su di lei. Trema persino davanti a una folla che la acclama come una diva, il suo sogno di bambina – e quello di tutte le altre ragazze con la testa piena di sogni arrivate nella Grande Mela. Darlene invece, che nel tempo si è fatta una cultura, rompe con la sua vita precedente essenzialmente perché comprende meglio i nuovi meccanismi, rompe le regole del gioco, va “dietro al finzione” come dice nell’eponimo episodio finale, ponendo l’attenzione su quello che è un atto che richiede un apparato solido dietro, non il singolo atto decisionale; e infatti Dorothy che ragiona in questo modo finisce come Ruby. In fondo qualcosina ha capito anche Larry, parlando con Darlene, e infatti abbandona il vecchio mestiere e si “riqualifica” come porno-attore lasciando i compagni di merende e lucidate di scarpe a sfidarsi a chi fa la fine peggiore: la lezione più importante alla fine è proprio quella che impone il dover acquisire consapevolezza del fatto che gli studios, e non le strade come la Deuce, sono i luoghi del nuovo mercato del sesso.

Cosa aspettarsi dalla terza stagione

Innanzitutto, una conclusione, dato che sarà anche l’ultima. La formula preferita di David Simon è pochi episodi da più di un’ora, quindi si rientra nelle casistiche. Probabilmente assisteremo alla fase dell’epidemia di Aids e della decadenza del sistema-porno e la sua rinascita ancora più cinico di prima, o all’eclissarsi delle figure tipo Lori, che dietro il successo nascondono una sofferenza più profonda che potrebbe portarla a chiudere il cerchio in maniera analoga a Ruby e Dorothy, così come al trionfo di “quelli che non capiscono”, perché il mondo si ricomporrà a loro misura. Una serie fatta di tanti piccoli personaggi che ruotano intorno a un universo in rapido e continuo cambiamento che vanno a costituire nel complesso, un racconto corale che vuole trasporre una fase come una sorta di documento giornalistico. Sul piano puramente narrativo solo la gestione della mafia nei momenti chiave dell’intreccio inizia a farsi ripetitiva e fastidiosa, ma The Deuce è una serie che, pur sapendo di già visto (“la vecchia televisione è possibile”) e non ponendosi obiettivi altissimi, ottempera a ciò che promette confermandosi un prodotto di assoluta qualità.