Dopo il buon riscontro ottenuto al Tribeca da Vierges (2018), l’israeliana Keren Ben Rafael è stata selezionata dalla Biennale College con The End of Love, opera seconda che nonostante l’assenza di particolari guizzi narrativi riesce a riflettere in maniera intelligente sui paradossi comunicativi inaugurati dalla rivoluzione digitale, affidandosi a una formidabile coppia di interpreti.

Tornato in Israele per rinnovare il visto, YuvahArieh Worthalter – ha lasciato in Francia la compagna JulieJudith Chemla – da sola con il figlioletto di un anno. A causa di intoppi burocratici però le due settimane preventivate iniziano ad allungarsi, con gli amanti costretti a utilizzare le videochiamate per sopperire al bisogno di affetto mentre la distanza geografica si traduce man mano in distanza emotiva.

the end of love

Nel marasma di produzioni contemporanee che si propongono di mettere in crisi i dogmi più inveterati del cinema ricorrendo ai nuovi media – che si risolvono poi in stanche imitazioni delle opere targate Dogma o giù di lì –, il lungometraggio di Ben Rafael fa tirare un sospiro di sollievo interrogandosi con un approccio piacevolmente inedito sulle potenzialità del dispositivo, imponendo come intermediario tra autore e fruitore – e anche tra Yubah e Julie – quello che nella finzione filmica è lo schermo del cellulare. Per la verità questa scelta non è chiarita sin dall’incipit e viene svelata poco dopo con una beffa allo spettatore, con una scena di sesso i cui scavalcamenti di campo sono poi giustificati dalla scoperta che i due stanno usando Skype.

Con una mimesi perfetta delle dinamiche di coppia, l’autrice fa sì che la crepa tra i suoi protagonisti si apra a poco a poco, chiamando anche chi guarda a dare adito alle proprie paranoie ventilando l’ipotesi di un tradimento. La pretesa di poter colmare la distanza ricorrendo a un contatto virtuale in tempo reale è messa alla berlina senza pietà, evidenziando l’infantilismo di certi atteggiamenti – chiedere al proprio figlioletto un bacio sullo schermo, un amplesso “a distanza” – che finiscono per nascondere i veri problemi di Yuvah e Julie, come le frustrate aspirazioni di carriera di lui – a quanto pare tenute sotto silenzio quando ancora vivevano insieme.

Così facendo per 90 minuti lo schermo della sala si trasforma nello schermo di uno smartphone, con interazioni più informali e immediate che, benché non riescano ad allontanare del tutto il “sentore” di messinscena – la presenza della cinepresa insomma continua a sentirsi –, permettono di empatizzare coi personaggi al primo impatto. E per suscitare un po’ di suspense o di sollievo, a Ben Rafael basterà lasciar squillare Skype a vuoto o cambiare l’inclinazione della camera del telefonino.

È un gioco che alla lunga stanca – un corto sicuramente sarebbe stato più efficace –, ma minutaggio a parte The End of Love funziona, configurandosi come un esperimento (riuscito) degno di questo nome. Con i suoi alti e bassi, la Biennale College si riconferma una delle fucine festivaliere più interessanti per i giovani talenti, in grado di offrire qualcosa di nuovo a chi ha fame di novità.