Ottobre 2021. Sulla frontiera polacco-bielorussa si accalcano profughi provenienti da diverse aree interessate da conflitti bellici, persecuzioni e oppressioni dei più fondamentali diritti civili e umani. Siriani, afghani, cittadini di varie popolazioni africane si ritrovano sballottati fra due sistemi, quello palesemente dittatoriale di Lukashenko, e quello in teoria democratico dell’Unione Europea. Entrambi gli ordinamenti politici non sanno che farsene di famiglie che hanno perso tutto e che chiederebbero semplicemente una chance di sopravvivenza, tanto più se non condividono le famose “radici ebraico-cristiane”. Dove latitano (o, peggio, delinquono) i sistemi ufficiali intervengono degli eroici attivisti, che provano a salvare il salvabile (soprattutto la faccia e la dignità dell’essere umano) e a dare un minimo sostegno materiale e giuridico ai disperati fuggiaschi.

La frontiera fra Belarus’ e Polonia non è (non dovrebbe essere) solo un margine territoriale fra due Stati, ma anche un “passaggio di status”. In teoria quella striscia boschiva che nell’incipit vediamo dall’alto nell’unica breve ripresa a colori del film, quelle distese di alberi frondosi che rappresentano appunto la “frontiera verde” fra i due territori, dovrebbe rappresentare un passaggio salvifico, una reintegrazione della giurisdizione umanitaria internazionale, ossia uno scarto fra il regime pressoché dittatoriale di Aleksandr Lukashenko e l’Unione Europea, che almeno sulla carta fa della difesa dei diritti umani e dell’opposizione valoriale di principio ai regimi antidemocratici orientali un vessillo e un punto d’onore. Ma questo ultimo film della coraggiosissima veterana Agnieszka Holland ci apre, anzi ci spalanca gli occhi su un abisso di disumanità diffusa, che non conosce, purtroppo, frontiera.

La Holland viene da quel cinema polacco che negli anni Settanta perlustrava i dubbi e i compromessi antropologici, i rimorsi di coscienza e le insufficienze etiche di una società che vedeva schiacciato lo slancio religioso ed intellettuale del Paese in una morsa pseudo-socialista, quella della PRL, la repubblica popolare polacca comunista, che si tingeva, per di più, anche di rigurgiti antisemiti e di egoismo conformista: era, fra l’altro, il cinema di Kieslowski, Falk, Zanussi e appunto della nostra buona Agnieszka, passato agli annali con una fortunata formula come “cinema dell’inquietudine morale”. La regista aveva avuto modo di formarsi a Praga, conoscendone la Primavera, di collaborare poi alle sceneggiature di Wajda e di sviluppare gli anticorpi antitotalitari che l’avrebbero portata a sondare ripetutamente e gli orrori dell’Olocausto (Europa Europa, In Darkness) e le sozzure del finto socialismo sovietico (Mr. Jones sul Holodomor ucraino su tutti). Qui ella prende il coraggio a due mani ed interroga invece il presente, con un piglio e una durezza frontale che, ancor prima dell’uscita stessa del film, le hanno già guadagnato campagne diffamatorie, articoli calunniosi e attacchi pesantissimi da parte dei circoli governativi polacchi ultraconservatori, quelli che da un lato non si peritano di fregiarsi di uscite omofobiche e ultracattoliche, e dall’altro si ergono a difesa dei “valori europei” contro gli stessi Putin e Lukashenko. Un paradosso che richiede una buona dose di coraggio e sfacciataggine per essere districato, e la Holland di coraggio ne ha da vendere.

Questa strada verso gli abissi antropologici è divisa in tappe, ossia i quattro capitoli (più epilogo) del film stesso: “la Famiglia” (dove ci vengono presentati alcuni dei profughi in cerca di salvezza), “la Guardia” (dove conosciamo i “villains”, ovvero le guardie di frontiera, sia bielorusse che polacche, ugualmente disumane), “gli Attivisti” (dove interviene un manipolo di difensori dei diritti umani), e “Julija”, dove seguiamo la presa di coscienza di una intellettuale borghese, che passa dalla passiva osservazione all’azione concreta e salvifica. Il gruppo principale di profughi è composto da una famiglia che ha perso tutto durante la guerra in Siria, da una intellettuale afghana occhialuta fuggita dai talebani (in cui riconosciamo forse qualche tratto autobiografico della regista…), nonché da famiglie subsahariane e da vari esseri umani perseguitati da Daesh/ISIS. Tutti musulmani, tutti extra-europei, tutti designati automaticamente come “altri” su quella democraticissima verde frontiera continentale. Tutti ugualmente rimpallati con disprezzo in una zona di contatto dove li ha cacciati diabolicamente Lukashenko, invitandoli surrettiziamente in Belarus’, per poi utilizzarli come “proiettili umani” nella sua vergognosa guerra ibrida tesa a destabilizzare i vicini, tutti ugualmente mal voluti anche dall’altra parte del confine (e i polacchi che qui fanno la figura degli aguzzini impietosi potrebbero essere tranquillamente sostituiti da molti altri popoli europei).

La prima parte del film raffigura dunque questo allucinante “ping-pong umano”, per cui i profughi vengono rispediti numerose volte avanti e indietro attraverso una brulla e inospitale no man’s land fra frontalieri polacchi e bielorussi, patata bollente da ricacciare agli odiati vicini, biomassa oggettuale da sbeffeggiare ed eventualmente privare degli ultimi risparmi. La disumanizzazione delle vittime, la reificazione dei loro corpi (si arriva a gettarli, vivi o morti, oltre il filo spinato, quasi fossero ridotti ad oggetti pronti per una discarica dell’Umanità), lo sfruttamento anche economico della loro situazione di debolezza, le campagne di demonizzazione da parte della stampa governativa polacca che sentiamo spesso in sottofondo (ci ricorda qualcosa?), fanno crescere nello spettatore, man mano che si scende nei gironi di questo “green inferno” contemporaneo, la sensazione di rivivere situazioni non troppo lontane da quelle illustrate nel cinema concentrazionario. Il bianco e nero opaco fotografato da Tomasz Naumiuk, che spessissimo si inombra in riprese notturne al limite della visibilità, i pantani in cui si smarriscono o affondano corpi inermi (metafora del paludoso continente europeo nel suo complesso?) fanno venire in mente il gioiello della nova vlna cecoslovacca I diamanti della notte, di Jan Nemec, dove due fuggiaschi ebrei si addentravano in una foresta minacciosa per cercare una via di salvezza dalle SS, e anche qui la cattiveria dei militari (da entrambi i lati del confine) non è scevra di richiami ad atteggiamenti comparabili a quelli del nazismo: disprezzo razziale, uso patologico della violenza, umiliazione e spregio della vita. Se i riferimenti al bianco e nero del cinema legato all’Olocausto possono scatenare un gioco da cinefili (Pasazerka di Andrzej Munk?, lo stesso Schindler’s List?, ma in fondo qui importa poco…) in realtà la veterana polacca ha imbastito un horror.

È infatti un film dell’orrore antropologico quello che ci scorre davanti, una dimostrazione che il “nazismo dormiente” in ognuno di noi può rinascere in qualsiasi brodo di coltura che combini emergenza umanitaria, rifiuto dell’Altro, ignoranza e arbitrio istituzionale: chi, infatti, può controllare la situazione di squilibrio di potere che sussiste fra le guardie armate e delle donne incinte e degli anziani con i piedi gonfi? L’impunità e la copertura governativa permettono ad esseri umani potenzialmente “normali” di diventare mostri in un batter d’occhio, con un’accelerazione da 0 a 100 sulla scala della violenza che dura pochi attimi, e che trasforma amorevoli padri di famiglia in aguzzini ghignanti. Ma se questa prospettiva tragica individuale, questo monito al “nazista che potrebbe essere nascosto dentro di noi” è uno dei possibili portati della riflessione filmica, la Holland non si nasconde dietro una betulla del confine polacco, ma sfonda con aggressività da “attivista integralista” le porte della rispettabilità ufficiale: questo Green Border è infatti un atto d’accusa direttissimo contro il governo polacco, di cui si odono nomi e cognomi (uno degli accusati è il Ministro degli Interni Zbigniew Ziobro, che ha già accusato prontamente la regista di fare propaganda anti-polacca da “Terzo Reich”), contro le guardie di frontiera, i cui capi sembrano ripetere, seppur in altra lingua e in climi meno marittimi, le litanie di un qualunque ministro leghista dei nostri lidi.

Che alcuni, solo alcuni dei profughi sopravvivano o riescano a ricongiungersi con le proprie famiglie in Europa è quasi irrilevante. La Holland qui non vuole fare una statistica percentuale di quanti si salvano: è l’homo europeus medio che non si salva, il re è denudato da questo j’accuse in cui l’Unione Europea è, da buona ultima, sbugiardata e privata di credibilità per le modalità con cui difende la “fortezza Europa”, soprattutto contro i “brutti e sporchi” (e di conseguenza cattivi) membri di altre confessioni e culture. L’epilogo sbatte in faccia a noi tutti la nostra vergogna: si svolge infatti nei primi giorni successivi all’invasione imperialista della federazione russa in Ucraina del febbraio 2022, dove le stesse guardie di frontiera polacche sono invece ben pronte (per fortuna!) ad accogliere donne e bambini cristiani, biondi e con gli occhi azzurri, che parlano una lingua molto simile alla loro. L’esistenza di profughi di serie A ben accetti e, dall’altra parte, di non-uomini indegni della nostra considerazione perché giusto un po’ più “esotici”, è uno dei più tristi paradossi che la regista di Varsavia ci consegna. Messaggio tanto più bruciante e realistico, quanto più indubbio e forte è stato il suo meritorio sostegno alla causa ucraina.

Cosa ci rimane in questa landa desolata? Ci rimane un eroismo che è da considerarsi ormai come il “grado zero” dell’umanità: quello del passeur ceco Honza, degli attivisti polacchi ispirati a reali gruppi di sostegno improvvisatisi sulla frontiera negli ultimi anni di crisi migratorie (si veda per esempio Mariusz, detto “czlowiek lasu”, “l’uomo del bosco”), quello della psicologa Julija che esce dalla propria comfort zone e tende la mano al diverso, all’altro, al sofferente.

Non è, forse, questo il vero cristianesimo: aiutare proprio chi “cristiano” non è?