The halt è un film duplice, è talmente duplice che è a sua volta un doppio. Un doppio di Season of the Devil, per l’esattezza, che lo precede di appena due anni e con cui va a formare un dittico unico straordinariamente complementare, costituendo un rapporto di reciprocità simbiotica. The halt è quindi l’altra faccia, o meglio, l’altra testa (perché autonoma) di Season of the Devil, che già vedeva al suo centro tematico un mostro bicefalo: un tiranno schizofrenico con due anime, contemporaneamente vittima e carnefice, in conflitto con se stesso ancor prima che con lo spazio del suo dominio, riflesso della situazione politica delle Filippine – mai transitate davvero verso una democrazia, ora schiacciate tra il ritorno della rediviva famiglia Marcos e l’autoritarismo di Duterte.

Da una parte il passato, l’ascesa di Ferdinand Marcos negli anni ’70, dall’altra il futuro: Manila, 2034, terzo anno di oscurità permanente. Di nuovo, come da topos consolidato del cinema diaziano, le catastrofi naturali riverberano la condizione umana, e una serie di eruzioni vulcaniche ha oscurato il sole seppellendo nel buio perenne l’arcipelago filippino, il cui controllo è nelle mani di Nirvano Reyes Navarra, dittatore ridicolo (ma non in chiave satirica o beffeggiatoria), che con la sua pazzia è metafora senziente del il limbo in cui è confinato il paese, secondo Lav Diaz, con tutte le sue conseguenze: politiche, sociali, umane, psicologiche. Il canovaccio narrativo – in questo caso più articolato rispetto ai fasti della fase di inizio anni ‘2000 con cui il regista si fece un nome – non differisce troppo dal film gemello: lo scenario è quello del terrore perenne della repressione costante, in tutte le sue subdole forme, il filo conduttore di questa carrellata di eterogenea di violenza è una delle tante anime perse che provano ad alimentare una sacca di resistenza, covando una speranza di liberazione, e si fa chiamare ironicamente Lone Eagle, lui che è ipovedente.

Di nuovo un facile parallelismo: in Season of the Devil mancava il suono musicale – ed era un (anti)musical, infatti – così come in The halt manca l’immagine, mai nitida, sebbene sia più o meno iscrivibile al filone della fantascienza distopica, il genere che più di tutti si basa sulla formulazione di nuove immagini; del resto la totale saturazione del b/n era già stata proposta proprio nell’opera precedente. Presentato nella Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2019, The halt tiene sì la fotografia ma ritrova la musica, spesso invadente e distorta, accompagnamento irrequieto e costante a sottolineare la piega grottesca degli eventi e la componente allucinata della realtà messa in scena. La vena iperreale diaziana evapora integralmente per lasciare posto a una distopia autentica e quasi caricaturale a tratti, insistita in ogni suo tratto descrittivo, a partire dalla pioggia perenne, per arrivare alla follia sistemica dei dialoghi o all’isteria dei corpi: non c’é, nonostante l’ovvio ritmo lento, mai un attimo di staticità nelle quattro ore e tre quarti di durata, attraversate da tensioni e dinamismo in ogni loro parte. La cifra stilistica di The halt è l’esasperazione, la riduzione a farsa di tutti gli elementi che compongono la rappresentazione della dittatura filippina, iniziando dal capo (umorale, lunatico, dai comportamenti paranoici e talvolta demenziali) per arrivare fino alle torture sadiche e prive di senso degne della colonia kafkiana che la popolazione è costretta subire perché se ne possa garantire il controllo. Violenza barocca, manierismi in apparenza depoliticizzati, gusto per l’esagerazione e la bizzarria: eccezioni curiose nella filmografia dell’autore di Datu Paglas.

Particolare attenzione è riservata alla prospettiva biopolitica, cioè le modalità di gestione da parte del potere politico della sfera vitale delle persone, in ambito sociale o individuale, e alle dinamiche del potere stesso nel contesto oscurantista che viene raccontato, in questo caso con una dose inusitata di particolarizzazione. Il dittatore bicefalo è folle perché pensa di detenere tutto il potere, mentre Lav Diaz lo decostruisce e ne traccia tre qualità: la circolazione, cioè gli effetti su una serie di menti umane e le reazioni e relazioni interne conseguenti alla natura del regime da parte di singoli; la dispersione, che avviene in un rete infinita di piccoli poteri che vengono esercitati, subiti, traslati e si sviluppa in cerchi apertissimi che portano la popolazione a dividersi ulteriormente e a combattere contro se stessa nelle sue varie parti; la stratificazione, nel momento in cui l’esercizio della violenza scova sempre nuovi margini di distorsione per legittimarsi e nuovi spazi vergini da occupare per affermarsi come autorità.

Non a caso questo è il film di Diaz più dialogato di tutti (a spanne), e, per quanto la grande maggioranza delle linee di dialogo sia pesantemente sopra le righe, le riflessioni che portano in dote, spesso anche in maniera esplicita e indelicata, riguardano tematiche essenziali, anche molto teoriche, in seno all’ambito politico di riferimento. Esiste quindi un prototipo di essere umano che vive sotto dittatura perenne? E come ragiona costui, che trasformazioni subisce rispetto allo homo che conosciamo tutti, cosa cambia nella sua testa e nel suo corpo? Queste sono le domande a cui Diaz cerca di rispondere, per farlo sceglie la via della reductio ad absurdum di ogni aspetto della vicenda, spinto fino ai più parossistici esiti proprio per acuirne l’impatto sulla mente dello spettatore, non più abbandonato a una esperienza immersiva e ipnotica, ma scosso a più riprese da rotture delle quarta parete e discorsi che vengono rivolti a lui come se gli venisse chiesto di fornire un aiuto concreto, di prendere posizione. A fare da contraltare a un apparato metaforico piuttosto pesante che fa risuonare simboli e situazioni figurative fino allo spasmo, ci sono queste esortazioni a farsi vicino alla realtà filippina, a leggerla con le categorie occidentali piuttosto che che derubricarla a fatalità esotica.

Diaz mette in ridicolo, attraverso Navarra, non solo Marcos e Duterte (personaggi di cui ha paura e che non vorrebbe dare impressione di sottostimare), ma anche la stessa concezione leaderistica del potere come un qualcosa che riguarda in senso verticale il dominante e i dominati, o il fatto di riassumere nella figura del capo l’origine del problema come se non esistessero le condizioni sistemiche di partenza da cui il fenomeno dittatoriale scaturisce. Insomma avviene un ribaltamento dello psicologismo, per cui il dittatore, pur molto considerato nello screen-time, viene confinato nelle sue stanze, pedina del sistema quanto chi soffre a causa sua, mentre viene dato ampio spazio all’auto-riflessione sul sé come uomo o donna che abita lo spazio sottoposto al potere più truce grazie  ai monologhi tragici concessi a coloro che provano  a resistere. La dittatura è vista come un problema atavico, e non il progetto politico preciso di uno specifico gruppo di persone con in mente la tutela di certi interessi, ed è una riflessione di una complessità, nei suoi 283 minuti, portata avanti con una tale lucidità e una tale completezza di riferimenti culturali (organicismo, biopolitica, dominio reale, identità, territorio), che non può essere né compendiata né commenta in una recensione cinematografica.

Da punto di vista filmico si può invece dire che, esattamente come in Season of the Devil, il registro di Diaz subisce dei profondi cambiamenti, rendendosi invece, senza perdere efficacia come accaduto con Norte, the end of history, molto più accessibile – mancano infatti i piani-sequenza fluviali, così come la fissità protratta della mdp tra le soluzioni registiche. Si tratta chiaramente di un effetto secondario dovuto al riuscito tentativo di portare sullo schermo, conservandone la potenza visiva e la dilatazione reale del tempo scenico, una fase del suo cinema che necessitava di un tipo diverso di radicalità, più mediata nel senso letterale del termine ma non per questo meno sincera o potente. Lav Diaz rimane un massimalista, questo dittico lo conferma (mentre Genus Pan funge da ulteriore testimonianza), e riafferma che il suo modo di fare film avviene tramite la proposta di manifesti radicali, che sia in senso sostanziale o relativamente al linguaggio. E in The halt c’è tanto il primo aspetto quanto, magari in maniera più superficiale o velata, il secondo – mai e poi mai abbandonato, forse vale la pena ricordarlo.