Audrey (10 anni), il suo gemello e gli altri due fratelli di poco più grandi si svegliano nella vecchia e isolata casa di campagna dove stanno trascorrendo le vacanze estive e si accorgono che il padre è sparito, senza lasciare traccia e senza apparenti motivi. Mentre cercano di cavarsela al meglio da soli, Audrey comincia ad avere delle visioni spaventose. Ben presto i bambini si rendono conto che il bosco che circonda la casa è invalicabile, e dal loro passato affiorano gradualmente dettagli inquietanti…
Inizia come un thriller psicologico con tinte da favola nera, il debutto nel lungometraggio della regista belga francofona Michèle Jacob, presentato al Festival di Karlovy Vary all’interno della neonata sezione Proxima, il cui scopo è mettere in rilievo giovani talenti dalle più svariate latitudini geografiche. Qui siamo in Vallonia, la regione orientale del Belgio che ha anche contribuito alla produzione di questo film allo stesso tempo inquietante e delicato.
La regista dissemina volutamente il suo lavoro di archetipi della fiaba e dell’horror, subito riconoscibili: la dimora in cui ci troviamo, per la sua conformazione e per gli agghiaccianti rumori che vi si propagano, è a metà strada tra la casa abbandonata e infestata dagli spettri e il castello delle fate; i quattro fratellini vi vengono lasciati soli alla maniera di Pollicino o di Hansel e Gretel e, come i loro coetanei di storie che sono il fulcro delle letture infantili in tutta Europa, si danno da fare per superare gli ostacoli posti dalla difficile situazione in cui si sono ritrovati. Tra questi ultimi possiamo notare un bosco che, per quanto si cerchi di attraversarlo, riporta sempre al punto di partenza, oppure un mostro minaccioso che emerge nel buio e ricorda evidentemente il proverbiale Babau, anch’esso comune a diverse tradizioni; o, ancora, una cavità oscura che sbuca dall’erba, molto simile alla tana del Bianconiglio in “Alice nel paese delle meraviglie”. Ma, come ci insegnano le innumerevoli letture psicanalitiche di fiabe a noi familiari e a volte mai comprese fino in fondo razionalmente, basta grattare un poco la superficie degli elementi arcani capaci di turbare bambini ed adulti (come Audrey gratta la tappezzeria di una parete della vecchia casa che, forse, nasconde una porta chiusa su un ulteriore, orribile mistero) per trovarvi la sublimazione di tutta una serie di quei traumi rimossi dalla psiche per rendere più sopportabile il dolore nell’immediato, ma comunque sempre pronti a bussare alle soglie di chi li ha vissuti, determinandone le scelte di vita.
E così risulta ben presto che i “bambini perduti” del titolo non si sono smarriti nel bosco che circonda la villa cadente delle loro strane vacanze estive, ma hanno, piuttosto, perso per sempre il controllo delle loro esistenze a causa di dinamiche familiari disfunzionali che li hanno segnati a vita, nello specifico per colpa di un padre da cui, fino alla sua morte, non sono mai riusciti ad emanciparsi. Lo si capisce man mano tramite sottili accenni, frammenti di conversazioni, oggetti simbolici che si trasfigurano, poi, in paurose visioni legate al passato… e al futuro. Perché l’apice della storia è senz’altro il colpo di scena rivelatore tramite cui si comprende che i bambini, in realtà, sono già diventati adulti – fatto che, a ben guardare, era suggerito sin dall’inizio dall’ambientazione del film, ben collocata temporalmente a differenza di quanto avviene nelle fiabe: i vestiti e gli accessori che vediamo sullo schermo rievocano chiaramente la seconda metà degli anni ’90. Si comprende allora come, dopo la morte del padre, i quattro, oggi quasi quarantenni, debbano ritornare con la mente al periodo, decisivo per la maturazione, della pre-adolescenza per guardare in faccia la cruda verità (l’uxoricidio compiuto dal padre) al di là delle menzogne che gli hanno raccontato (o che si sono raccontati?), e cercare coraggiosamente di elaborare la propria esperienza traumatica, costruendo da soli il proprio futuro. E questo lo dovrà fare per prima Audrey, ignara testimone del delitto e, per contrappasso, ancor più morbosamente legata al padre. Da lì in poi lo sviluppo della trama si fa più prevedibile, fino a una sorta di happy end che trasforma il film da favola nera a racconto di formazione, anch’esso nel pieno spirito della fiaba.
Meritano sicuramente un applauso i quattro bravissimi giovani protagonisti su cui si impernia il film, praticamente gli unici attori che vediamo sullo schermo, sempre in scena, il più delle volte catturati da primi e primissimi piani. Audrey e la giudiziosa sorella maggiore Alex sono interpretate da Iris e Liocha Mirzabekiantz, sorelle anche nella vita: la spontanea complicità che dimostrano quando recitano insieme è un’altra carta vincente del film.