Presentato nella selezione ufficiale del Concorso di questa 78esima edizione, The Power of the Dog segna il ritorno sul grande schermo di Jane Campion a più di un decennio di distanza da Bright Star (2009), con la quale la regista neozelandese, in sintonia con i suoi vicini australiani più promettenti – peraltro quasi tutti passati per il Lido nel corso delle precedenti edizioni –, si ripropone di proseguire nell’opera di demitizzazione della frontiera e dei suoi canoni iconografici, così come stabiliti dal western tradizionale.
Montana, 1925. I fratelli Phil – Benedict Cumberbatch – e George – Jesse Plemons – Burbank, proprietari del ranch di famiglia, effettuano la loro prima traversata della stagione per la vendita del bestiame. Nel corso del viaggio, la carovana fa tappa nella cittadina di Red Mill presso la pensione della bella vedova Rose – Kirsten Dunst –, la quale inizia ben presto a ricambiare le attenzioni di George. Nonostante la resistenza opposta dal fratello maggiore, i due riescono a ufficializzare la propria unione prima che questi riesca a passare al contrattacco: inizia così una difficile convivenza nel ranch Burbank, soprattutto per quanto concerne il rapporto tra Phil, la cognata e il figlio adolescente di quest’ultima, Peter – Kodi Smit-McPhee –, il cui carattere gentile e ingenuo lo rendono una preda facile nel selvaggio West.
Tratto dal romanzo omonimo (1967) dello scrittore americano Thomas Savage, che in esso aveva cercato di condensare non solo l’ambiguo mito fondativo della sua nazione ma anche diversi episodi autobiografici – o presunti tali –, The Power of the Dog appare lontano anni luce dal melancolico – per non dire melodrammatico – biopic pre-vittoriano sugli ultimi anni di vita del celebre poeta inglese, come anche dai toni thriller dell’ultimo progetto televisivo della regista Top of the Lake, prodotto per la BBC nel lontano 2013. Ritornando alle tematiche che hanno fatto la fortuna dei suoi capolavori – a ben guardare rintracciabili un po’ ovunque nella sua produzione –, Campion si cimenta in una rilettura critica – con occhi “femminili” e fors’anche femministi, certo, ma ancor prima autoriali – del momento storico prediletto del cinema classico americano, ovvero quello della conquista dell’entroterra occidentale da parte dei virili e impavidi coloni a cavallo.
Instillando il sospetto dell’attrazione omoerotica, sia per quanto concerne l’amico tragicamente scomparso di Phil – il fantomatico Bronco Henry, i cui cimeli vengono custoditi gelosamente dal personaggio interpretato da Cumberbatch –, sia poi per quanto riguarda il rapporto tra il giovane Peter e lo zio acquisito, Campion sembra volere, ancor più che demolire un ideale di virilità anacronisticamente machista e di per sé mai realmente esistito – se non entro le rappresentazioni poietiche, di ambito cinematografico e non –, minare il senso di determinazione e scopo che sovente si accompagna alla descrizione dell’epopea cowboy: gli uomini che hanno conquistato il West – sia esso il Far West propriamente detto o altre realtà di frontiera a esso sovrapponibile – non erano infallibili, privi di incertezze, né l’avanzata verso l’interno corrispondeva a una conquista, quanto piuttosto a una scoperta, segnata dalla paura nei confronti del diverso – si tratti dell’omosessuale o della locale comunità di nativi – e dell’ignoto, dinanzi al quale il nuovo venuto non può far altro che costruire la sua umile barriera – il ranch Burbank, per quanto esteso, è in fin dei conti poco più di un punto in mezzo al nulla stepposo del Montana.
In altre parole, sulla falsariga di Sweet Country (2017) di Warwick Thornton, di The Nightingale (2018) di Jennifer Kent o ancora del recentissimo The Furnace (2020) di Roderick MacKay, anche l’ultima fatica della Campion sembra confermare – pur scegliendo coordinate geografiche diverse – la tendenza demitizzante del nuovo cinema australiano/neozelandese che, quasi saltando un passaggio ideologico – quello della giustificazione della propria raison d’être come nazione nella necessità di soggiogare e rendere ospitale la natura selvaggia, a scapito degli abitanti originari di quelle stesse terre –, assume direttamente una postura post-coloniale nello scoprire le ferite all’origine delle ingiustizie sociali che ancora oggi percorrono i rispettivi paesi.
Il modo in cui ciò viene conseguito è, tuttavia, lontano dai toni crudi adottati dai cineasti di cui sopra, come pure dall’erotismo esplicito e passionale celebrato in Brokeback Mountain (2015), con il quale il paragone è d’obbligo – la stessa Annie Proulx, autrice del racconto originale su cui si basa la pellicola di Ang Lee, è stata coinvolta dalla Campion in fase di sceneggiatura, onde ricevere un ulteriore parere sulla migliore modalità di rappresentazione di questa omosessualità soffertamente repressa.
The Power of the Dog è infatti un film fatto di silenzi e sottintesi, di ellissi temporali che occultano gli eventi più tragici e pregnanti, delegando quindi allo spettatore il compito di colmare il divario tra un capitolo e l’altro con le proprie deduzioni: si determina così un costante senso di frustrazione, per un amore che ha facoltà di esprimersi e consumarsi soltanto nella sua versione istituzionalmente accettabile – George e Rose, coppia sposata e desiderosa di farsi riconoscere come tale agli occhi della buona società –, quando in realtà la simbologia dei gesti compiuti – l’affetto con cui Phil intreccia la corda di pelle per Peter – suggerisce uno spettro incredibilmente più vasto.
Nel complesso, quello della Campion si configura sicuramente come un ritorno gradito, anche se non immune da certi patetismi ricorrenti che, dopo Bright Star, speravamo di esserci lasciati alle spalle.