Turandot al Verdi di Padova

«Una Turandot attraverso il cervello moderno», scriveva Puccini mentre lavorava al suo testamento musicale. Indubbio è che nella fiaba settecentesca di Carlo Gozzi ci fossero già elementi che sarebbero divenuti cari all’antropologia e alla psicoanalisi, in primis la frigidità. Il regista Filippo Tonon, che ha allestito col Teatro Nazionale di Maribor quanto andato in scena il 25 e il 27 ottobre al Verdi di Padova, vuole partire proprio da questa modernità, rispecchiando sul palco il macchinare continuo dell’animo della protagonista.

Ci saremmo aspettati dunque qualcosa di concettuale, al massimo onirico, ma all’alzata del sipario si vede tutt’altro. L’ambientazione originale, una Cina lontana e «al tempo delle favole», viene rispettata, soprattutto dagli sfarzosissimi e accecanti costumi di Cristina Aceti, un profluvio di strass, gioielli e luccichii che a lungo andare stanca gli occhi. L’impianto luci, giocato sull’oscurità e cromie fredde per permettere agli abiti di risaltare in un effetto di opulenza rococò, restituisce un mondo freddo, quasi cosmico, dove nemmeno il sole del finale Alfano trova spazio. Per il resto, il continuo spostarsi di tre enormi cubi, a mo’ di scatole cinesi, tutto sembra tranne che il mutare della psiche di Turandot e il «grande meccanismo della mente umana». La caratterizzazione dei personaggi non aggiunge nulla di nuovo a quanto visto finora, se escludiamo il trio Ping-Pong-Pang inteso come triplicazione di un unico pensiero. Completamente inutili sono le coreografie per il Corpo di ballo del Teatro di Maribor, ingenue nei loro svolazzi da fatine.

Rebeca Nash nel ruolo eponimo si distingue per solidità vocale e ottimo uso dei volumi, in grado di ritrarre una principessa altera e gelida. Erika Grimaldi ce la mette tutta per far risaltare la sua Liù che parte in sordina nel primo atto per poi crescere in espressività, seppur migliorabile nel fraseggio. Gaston Rivero riscuote successo tra il pubblico, nonostante certi sforzi rendano l’acuto non sempre pieno. Corretti il Timur di Abramo Rosalen e il Mandarino di Cristian Saitta. Ping, Pang e Pong, rispettivamente Leonardo Galeazzi, Emanuele Giannino e Carlos Natale, risentono di alcuni scollamenti con la buca, ma assolvono con discreta competenza il loro compito. Completano il cast Antonello Cerone come Altoum e Tiberiu Marta come Principe di Persia.

Il Coro, preparato da Zsuzsa Budavari-Novak, dovrebbe migliorare il dosaggio dei volumi, l’espressività e l’omogeneità tra sezioni.

Il maestro Alvise Casellati, già impegnato il mese scorso ne La scala di seta alla Fenice, dirige l’Orchestra del Teatro nazionale di Maribor senza curarsi troppo della scrittura pucciniana, ma seguendo un’idea personale piuttosto confusa. Tutto è assordante, esasperato, con scarso rispetto per la cura dei volumi, del fraseggio e delle agogiche. Diversi scollamenti tra buca e palco, nel caotico primo atto e nel trio Ping, Pang e Pong del secondo, hanno messo in difficoltà i cantanti.

 Applausi per tutti, in particolare per Rivero, da parte del pubblico alla prima del 25 ottobre.

Luca Benvenuti