“una donna” di sibilla aleramo

Un diario, anche quando viene pubblicato, è sempre visto come un testo legato alla ristretta cerchia familiare dell’autore e quindi “limitato” ai sentimenti e ai piccoli eventi che si registrano all’interno di questo ambiente racchiuso.

Ma il diario di Sibilla Aleramo –pseudonimo di Rina Faccio- è diverso.
Non ci parla solo della sua infanzia –vissuta in adorazione della figura paterna- del matrimonio con un marito violento e infedele, delle difficoltà di conciliare la sua vocazione di scrittrice con l’obbligo di essere madre e moglie.
Non c’è solo l’aspetto familiare, in questo primo libro femminista apparso in Italia.
Le pagine del diario si allargano anche alla situazione sociale e culturale dell’epoca descrivendo gli squallidi sobborghi di Roma in cui vengono confinati i ceti più poveri, criticando la redazione di un giornale femminista che non riesce ad impostare una propaganda attiva (come mai tutte quelle “intellettuali” non comprendevano che la donna non può giustificare il suo intervento nel campo già troppo folto della letteratura e dell’arte, se non con opere che portino fortemente la propria impronta?), illuminandoci sulla reale condizione delle donne sposate a cavallo tra ‘800 e ‘900: segregate nell’ambiente domestico, obbligate a chiedere l’autorizzazione maritale per poter ereditare e impossibilitate a divorziare se il marito le tradisce.
Costrette a indossare una maschera di rispettabilità e felicità coniugale mentre il marito le insulta “vomitando un cumulo di parole infami” e le picchia se gli rinfacciano le sue colpe.
Per Sibilla, esasperata da questa condizione, l’unico modo per uscire da questo inferno e recuperare la propria dignità di donna e di essere umano è la separazione.
Vivere lontano dal marito per salvare la propria mente e la propria salute, per non finire come la madre –pazza, in manicomio- anche a costo di perdere l’amato figlio, attorno cui Sibilla aveva costruito la propria esistenza.
Perché “la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una DONNA, una persona umana”.
Il contenuto femminista di denuncia sociale, percepito fin dalla prima pubblicazione (1906) ne decretò il successo.
In un sistema che voleva le donne sottomesse, Sibilla ci racconta il duro cammino che ha dovuto percorrere per arrivare all’indipendenza, all’affermarsi come capace scrittrice e come esponente di spicco di una nuova corrente femminista italiana.
Era infatti l’epoca del “FEMMINISMO DEL FARE”: un aiuto alle donne delle classi meno abbienti per diffondere le idee emancipazioniste in modo pratico, non solo teorico, al grido di “agire! Questa è la vera propaganda”.
E sarà proprio immergendosi nel sociale, venendo a contatto con le miserie del mondo che Sibilla riuscirà a dare uno scopo alla sua vita dopo che il marito le avrà strappato il figlio: “durante l’incessante attesa avevo voluto persuadermi che la vita va vissuta per un fine più largo che non sia quello della felicità individuale, che ogni rinuncia è possibile quando si giunge a sentire la necessità del legame sociale.”
Un testo ricco di spunti moderni nella consapevolezza femminile dell’autrice (signora di sé, la donna non era di certo ancora: lo sarebbe mai?), nell’analisi sociale (Mi spiego la mancanza in Italia di un nucleo che disciplinasse i tentativi e le affermazioni femministe. La solidarietà femminile laica non esisteva ancora.) e nelle riflessioni espresse (bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna) che troveranno applicazione nei successivi moti femministi, fino ai movimentati anni ’70.

Feltrinelli, 2003, 272 pag, 6.50 euro

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