“È straordinario”, dice uno sbalordito agente d’arte difronte a un mucchio di sacchi della spazzatura poggiati sul pavimento di un atelier, prima di essere corretto dal proprietario del laboratorio che lo fredda con un imbarazzante “non è un’opera d’arte”. Quella che potrebbe sembrare una scena di Le vacanze intelligenti col grande Alberto Sordi è invece uno scambio di battute tratto da Velvet Buzzsaw, thriller targato Netflix ambientato nello stravagante mondo dell’arte contemporanea losangelina e disponibile sulla piattaforma dal 1 febbraio scorso. Presentato al Sundance Film Festival la settimana scorsa e diretto da Dan Gilroy, già autore cinque anni fa dell’angosciante ma ben riuscito Lo sciacallo – Nightcrawler, Velvet Buzzsaw racconta una storia dalle forti sfumature horror attraverso un gruppo di personaggi diversamente detestabili, tra critici, artisti e mercanti d’arte, riprendendo in parte il cast del film del 2014.
A vestire i panni del cinico critico d’arte Morf Vandwalt è infatti Jake Gyllenhal (già protagonista di Nightcrawler) mentre nel ruolo della gallerista con un passato da pop star Rhodora è un’icona degli anni novanta come Rene Russo (che nel film del 2014 era invece la spregiudicata direttrice di un tg locale). Le vite e carriere di questi e altri personaggi (come un John Malkovich in grande spolvero nei panni di un’artista in crisi o una Toni Collette biondo platino in quelli di un’agente d’arte venale e sfacciata) verranno stravolte dalla scoperta della numerosissima, sublime e inquietante opera di un pittore misterioso, i cui quadri cominceranno a ossessionare o addirittura perseguitare i protagonisti del mondo delle gallerie e dei vernisage di una Los Angeles al limite del materialista, vittime uno dopo l’altro di morti misteriose e atroci.
E se ne Lo sciacallo Gilroy si limitava a indagare la bassezza e l’orrore dell’uomo moderno attraverso una fotografia esagerata ma verosimile dell’inesplorato mondo dei cacciatori di incidenti stradali, questa volta il regista californiano decide di servirsi degli strumenti del vero e proprio cinema horror e di pesanti elementi sovrannaturali per raccontare quella tomba dell’umanità che è per lui Los Angeles, in questo caso dalla prospettiva del patinato mondo dell’arte contemporanea. Velvet Buzzsaw diventa quindi il racconto della sanguinolenta vendetta dell’arte stessa che (allarme spoiler) comincia letteralmente a uccidere nel più violento dei modi tutti quei frivoli personaggetti che l’hanno trasformata in un prodotto da supermercato, trasformando il film in una sorta di figlio illegittimo tra un Sorrentino californiano (con una graffiante ma generica critica al mondo dei salotti, romani o losangelini che siano) e il Cronenberg più recente (e forse più scontato).
Come accennato, il fatto che il film si sprechi tra luoghi comuni, cliché ed esagerazioni sul mondo delle gallerie d’arte (emblematiche in questo senso le battutine di Morf sul colore e sul modello fuori moda della bara a un funerale) non è un punto a favore per questo thirller sopra le righe, ma risulta più che tollerabile una volta che entra in gioco l’elemento soprannaturale. A far dimenticare alcune pecche del film in fatto di originalità è un magistrale studio delle inquadrature, con un uso del colore e dei contrasti gestito nei minimi dettagli e un’inventiva unicanelle scene in bilico tra assurdo e reale, con le varie scene della “vendetta” dei quadri maledetti che spicca per originalità in particolare la morte dell’agente d’arte senza scrupoli Josephine (Zawe Ashton) o di Rhodora. Grazie a momenti come questo, Velvet Buzzsaw riesce ad essere un film estremamente godibile, nonostante la semplicità di alcuni tentativi di critica sociale.