VENEZIA – C’era grande attesa per l’inaugurazione della stagione lirica e di balletto 2023-2024 del Teatro La Fenice che alza il sipario con Les Contes d’Hoffmann di Jaques Offenbach, l’incompiuta più enigmatica della storia dell’opera. Se è difficile riuscire a farne un’edizione critica definitiva, a causa dell’orchestrazione incompleta per la scomparsa prematura del compositore e la diaspora dei manoscritti, certo è che il libretto di Jules Barbier, già autore assieme a Michel Carré de Le Timbre d’Argent, drame liryque di Saint-Saëns di tema vagamente affine, celebra l’arte come consolatio dalle sconfitte sentimentali. L’amore di Hoffmann per Stella rivive attraverso la triade Olympia-Antonia-Giulietta che altro non sono che “trois femmes dans la même femme” o tre aspetti di essa. Dopo cotanta sofferenza, la Musa convincerà il poeta a rinunciare all’amante per dedicarsi al Genio.
I Contes sono un rebus irrisolvibile. Con almeno nove edizioni critiche già edite, il maestro Chaslin ne proporrà un’ulteriore a Riga nel settembre 2024. Giusto che ognuno provi a tirare le fila di una matassa da sempre sfilacciata e riallacciata secondo teorie e materiali differenti, mantenendo così vivo il dibattito sulla vessata questio. Eppure, è proprio questa impossibilità a metterci la parola “fine” a rendere l’ultimo sforzo di Offenbach un unicum estremamente contemporaneo e affascinante. Per questo allestimento sono state prese a riferimento le versioni Oeser e Choudens, con manipolazioni e tagli funzionali al lavoro registico.
Un parallelo curioso. Nel 1965 il titolo fu proposto alla Fenice dalla Komische Oper di Berlino Est in trasferta, un evento molto discusso sui quotidiani locali che non mancarono di farne un’occasione politica. I Contes tornarono nel 1994 nell’allestimento del Covent Garden, quindi sempre da un paese estero. L’ultima fatica di Damiano Michieletto arriva, fresca di debutto, da Sydney, una felice coproduzione del teatro veneziano con Opera Australia, Royal Opera House Covent Garden Foundation e Opera National de Lyon. Per Michieletto i Contes sono l’éducation sentimentale di un povero homeless che racconta agli avventori della birreria le sue passate sventure amorose. Le tre parti femminili sono affidate ad altrettanti interpreti, così che l’effetto teatrale del fallimento di Hoffman sia più potente. Si parte dalla scuola, dove un Hoffmann-Pinocchio si innamora di Olympia, più alunna prodigio che automa, per proseguire con la sfortunata storia di Antonia, ballerina mancata che si danna proprio in una scuola di danza che ricorda, vagamente, Suspiria. Il regno di Giulietta, novella Marylin Monroe, è un nightclub o meglio un privé, volendo anch’esso “scuola” dove qualcosa alla fine s’impara. E’ chiaro che sia il diavolo a impedire il compimento di questi amori e il riuscito coup de théâtre al termine enfatizza, ironicamente, quanto esso sia il contraltare del poeta. Troppi sarebbero da raccontare i dettagli di una regia ispirata che trova nel fantastico, e non nella psicologia cara a Michieletto, il suo modus operandi, ricco di particolari, coreografie, controscene e idee sempre sviluppate con coerenza. Ricorderemo la grande aria di Olympia, il divertente balletto sull’aria di Frantz, il coinvolgente finale del secondo atto, le atmosfere esoteriche del terzo atto e l’emozionante epilogo, in cui tutte le creature citate da Hoffmann tornano a fargli visita e lo stringono in un abbraccio ideale, esortandolo a riscaldare il genio con le ceneri del cuore. Lascia perplessi lo sdoppiamento Muse/Nicklausse: la prima è una sorta di Mary Poppins tutta verde, quasi la Fée Verte dell’assenzio bevuto da Hoffmann, il secondo un simil Papageno che parla attraverso un pappagallo.
Quanto sopra è inserito nelle scene magistrali di Paolo Fantin, che riprende alcune suggestioni da Alcina (2019), Don Giovanni (2010) e Zauberflöte (2015), e il disegno luci di Alessandro Carletti. Ineccepibili i costumi di Carla Teti, tra i quali vanno segnalati quelli elegantissimi del terzo atto, in cui spicca la citazione dell’abito d’oro di Travilla indossato da Marylin in Gentlemen prefer blondes.
Sul podio c’è Frédéric Chaslin, che ha diretto i Contes 732 volte. La sua è una lettura tutto sommato interlocutoria, ricca di volumi e molto incisiva. Non mancano belle sfumature nelle arie più celebri, mentre i momenti più intensi brillano per scelta di dinamiche decise che sottolineano il pathos del momento.
Ivan Ayon Rivas, già Faust a Venezia nel 2021 e 2022, è Hoffmann in grado di affrontare l’onnipresenza in scena con una linea di canto omogenea, ricca nel fraseggio, restituendo un eroe appassionato, ma disincantato. Nei ruoli del male (Lindorf, Coppélius, Miracle e Dappertutto) trionfa Alex Esposito, veterano del repertorio “sulfureo” che gli calza a pennello. Ottima la voce, brunita ulteriormente rispetto al Méphistophélès faustiano, sempre sicura e chiara nell’emissione, perfetta nella dizione. Rocío Pérez è Olympia più umana che meccanica, in grado di affrontare con sicurezza e gustose variazioni le impervie colorature di “Les oiseaux dans la charmille“, risolta da Michieletto con l’efficace trovata di cifre che si susseguono all’impazzata sulla lavagna. Convince meno la scelta di Carmela Remigio nella parte di Antonia, non molto diversa come resa dalla Marguerite faustiana o dalla Suzon. Senza dubbio ottima attrice, brava nell’esprimere il rimpianto di Antonia di non poter danzare pena la morte (nell’originale, cantare), ma si rivela poco incisiva in termini di timbro e morbidezza di emissione, non c’è dramma nella sua voce. Veronique Gens è Giulietta matronale, piuttosto rigida in un ruolo che richiede invece sensualità e non freddo distacco. Giuseppina Bridelli si distingue come Nicklausse d’ottimo spessore, così come Paola Gardina punteggia la scena come Muse a tutto tondo. Didier Pieri, interprete anche di Andrès, Cochenille e Pitichinaccio, è Frantz di pregiata fattura, cesellando un’ottima “Jour e nuit“. Completano il cast Federica Giansanti (la Voix), Christian Collia (Nathanaël), François Piolino (Spalanzani), Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill). Menzione a parte per Francesco Milanese, ottimo Luther e pregevole Crespel.
Bravissimi i ballerini che nelle fattezze di topi, fate e diavoli, grazie alle coreografie ben pensate di Chiara Vecchi, arricchiscono il racconto di magia e ritmo.
Nonostante qualche imprecisione nel prologo e nel terzo atto, il coro, preparato da Alfonso Caiani, supera brillantemente la prova.
Applausi e ovazioni per tutti alla recita del 2 dicembre, da parte del pubblico accorso davvero numeroso.
Luca Benvenuti