Dopo 16 anni di silenzio, Giuseppe Verdi tornò sulle scene con Otello, proponendo un nuovo stile, attribuito erroneamente da alcuni a influenze wagneriane. Il cigno di Busseto lavorò invece sul suono come nuda materia, un’enorme massa d’urto plasmata secondo un espressionismo che rifugge dalla forma chiusa di recitativo-aria-cabaletta per trovare il suo linguaggio nel declamato melodico. Prima di Otello c’è la Messa da requiem, e se ne sente traccia evidente nei cori del primo atto (“Dio, fulgor della bufera!” è fratello gemello del “Dies irae”) e non solo. Siamo nel 1887, sul finire del secolo, ricorda Massimo Mila ne L’arte di Verdi, sottolineando come il compositore apra la musica alla crisi della civiltà contemporanea che vede l’uomo in un universo senza miti e privo di certezze. Un nichilismo che trova la massima espressione in Jago, arrampicatore sociale invidioso e privo di qualsiasi valore morale – non dimentichiamo che nel dramma di Shakespeare egli pugnala la consorte Emilia, particolare espunto dal librettista Arrigo Boito. Se Jago è il calcolo, Otello è l’istinto, plagiato dall’infido consigliere che lo porta a scendere negli abissi più reconditi e sordidi dell’animo umano fino all’uxoricidio. Delitto che ci riporta all’oggi, ma troppo semplicistico sarebbe elevare Otello a simbolo solo del femminicida. Il Moro è anche vittima di una fake news, di una realtà “virtuale” manipolata, è l’altro che confonde un’ordine sociale prestabilito, portando con sé razzismo, misoginia, paranoia e intolleranza, spunti di partenza per un allestimento efficace.
Poco di quanto sopra entra invece nell’Otello che apre la stagione lirica veneziana. Il regista Fabio Ceresa, di cui a giugno avevamo visto un Bajazet, gioca sul dualismo bene/male. Da un lato una forza oscura, evocata dal verso di Jago «Temete, signor, la gelosia!/è un’idra fosca, livida, cieca», personificata da ben nove mimi. Dall’altro il leone marciano, fido compagno di Emilia e Desdemona che scorrazza fiero finché non viene decapitato da Otello al termine del terzo atto. Sono presenze che non apportano alcun significato alla trama e alla lunga annoiano. Più coerente, oltre che dimostrazione di continua ricerca da parte della Fondazione, sarebbe stato inserire i ballabili della versione francese del 1894. Ceresa, inoltre, dopo il buffo inizio col coro che simula pancia a terra le onde del mare, riveste la vicenda di un’inopportuna sacralità, ricca di simbolismi estranei al dramma: servitori di corte come cherubini dagli ampi piumaggi che li rendono impacciati nelle uscite laterali; l’omaggio popolare di donne e marinai nel secondo atto rifulge di riflessi dorati, con gigli e spighe proiettate sullo sfondo; Lodovico compare ieratico con spada e bilancia, su cui verranno pesati dei gigli, e alle spalle il coro agghindato da santi e sante benedicenti che sembrano usciti da Sant’Apollinare in Classe; le stelle che progressivamente si spengono mentre Desdemona intona l’Ave Maria paiono quelle del mausoleo di Galla Placidia. Per il resto, tutto rimane nel solco della più rassicurante tradizione, eccezion fatta per la volontà di non pittare di marrone il viso di Otello, scelta che depaupera la drammaturgia prevista da Shakespeare e Boito. Le scene di Massimo Checchetto ricreano una Cipro inusitatamente bizantina, rifulgente d’oro e pietre preziose, dove Otello e la moglie sembrano più Giustiniano e Teodora che dignitari della Serenissima. Il palco è diviso in due da una grande trifora, al di là del quale i video di Sergio Metalli suggeriscono interpretazioni simboliche. I costumi di Claudia Pernigotti rispondono allo sfarzo chiesto da regista e scenografo. Nel complesso, rimane uno spettacolo come tanti, debole nelle idee, ma di sicuro appeal sul pubblico.
Il maestro Myung-Whun Chung supera il sublime: dirige l’orchestra con un’intensità e una maestria introvabili, degne del Verdi in questione. Travolgente nell’attacco iniziale, dolce e sognante quando serve, conferisce colori assai suggestivi, riuscendo a non coprire sovente le voci.
Nel cast si distingue lo Jago di grande spessore di Luca Micheletti, non solo baritono, ma anche regista e attore di prosa, valori aggiunti a questa riuscitissima prova. Dizione perfetta, presenza scenica ineccepibile, sfoggia una voce ben timbrata, sicura e autorevole anche nei passaggi più complessi. Entra così bene nel personaggio da stimolare nello spettatore un autentico senso di fastidio e ripulsa.
Francesco Meli debutta come Otello, “ruolo verdiano numero diciotto” ci tiene a precisare in un’intervista a Il Giornale. Se ci si cimenta in nuove parti per “piacer di porle in lista”, significa puntare sulla quantità e non sulla qualità. I limiti di Meli paiono evidenti fin dal traballante “Esultate!”, la sortita del protagonista con tutto il suo trionfale passato di condottiero alle spalle che non è sembrato un ingresso eroico. La linea di canto è discontinua, sovente calante (in “Venere splende” e “Ora e per sempre addio” ad esempio), priva del peso vocale richiesto dal ruolo che Meli, nel secondo e terzo atto, arricchisce con una buona dose di introspezione psicologica. Le sfumature, i chiaroscuri e persino i momenti più lirici rimangono però sepolti nella tensione per il controllo della voce.
Karah Son tratteggia una Desdemona mediocre, caratterizzata da un fastidioso vibrato nel centro e da asprezze in zona acuta, poco incisiva nel fraseggio e nel gusto musicale. Tuttavia, la canzone del Salce e l'”Ave Maria” sono ben eseguite, grazie anche alle finezze del maestro Chung in buca.
Cassio esilissimo quello di Francesco Marsiglia, mentre senza dubbi positiva è la prova di Francesco Milanese nel ruolo di Lodovico. Completano il cast Anna Malavasi come Emilia, William Corrò nella parte di Montano, Enrico Casari quale Roderigo
Il Coro, preparato dal maestro Alfonso Caiani, è lanciato verso l’empireo, ispirato e affiatatissimo: “Dio, fulgor della bufera!” è da pelle d’oca. Puntuali i Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
Consensi e ovazioni per Micheletti e Chung, applausi calorosi per Meli alla recita del 26 novembre.
Luca Benvenuti