Venezia, Teatro Malibran – Il Bajazet

Dopo Dorilla in Tempe (2019), Farnace (2021), Griselda (2022) e Orlando furioso (2018, 2023), La Fenice di Venezia prosegue la riscoperta della produzione teatrale vivaldiana. Torna, dopo diciassette anni, Il Bajazet, uno dei pasticci più noti di Vivaldi. Nel 2007 la produzione vide impegnati lo IUAV nella realizzazione semiscenica, Fabio Biondi alla direzione e nel cast, tra gli altri, Daniela Barcellona, Vivica Geneaux e Marina de Liso.

Il conflitto politico-amoroso tra Bajazet, condottiero dell’impero ottomano, e Tamerlano, emiro di Samarcanda, venne intonato frequentemente già a partire da fine Seicento. Il capostipite va cercato Oltremanica, nel Tamburlaine the Great di Christopher Marlowe del 1590, fonte che arrivò in Europa per poi essere rielaborata da altri drammaturghi secenteschi. Il libretto del Bajazet di Agostino Piovene, scritto per Vivaldi, si ispira alla tragedia di Jacques Pradon Tamerlan ou La mort de Bajazet edita nel 1675. Vivaldi scrisse circa l’ottanta per cento della musica, mentre il resto è una greatest hits di arie di compositori molto apprezzati in quel tempo, quali Johann Adolf Hasse, Geminiano Giacomelli e Riccardo Broschi, fratello del celebre castrato Farinelli. Un pasticcio, appunto, prassi artistica che manteneva in vita musiche che precedentemente avevano riscosso particolare successo.

E’ alla prassi antica che si ispira il regista Fabio Ceresa, sostenendo che, se nel Settecento si andava a teatro per fare tutto tranne che ascoltare musica, allestire Bajazet come fosse Un ballo in maschera non avrebbe senso. Ecco quindi che gli interpreti intonano i recitativi vestiti di nero, come in prova sul proscenio, mentre ad ognuna delle venticinque arie corrisponde un siparietto a sé stante. Ciò permette di creare una “micro-opera” in cui fondamentali diventano le scene di Massimo Checchetto e i costumi di Giuseppe Palella. Sono esercizi di stile meta-teatrale, per citare Queneau, in cui Ceresa inserisce un po’ di tutto: da Carosello alla Gradisca di Amarcord, dalla mistress sadomaso al Bell’addormentato, da Jack lo squartatore al Rinaldo di Pizzi, trovando nei testi delle arie un’appiglio tematico da sviluppare visivamente. In questo centone registico, si rivela forse poca adatta la scelta di camuffare Bajazet da Super Mario durante “Verrò crudel spietato” e “Coronata di gigli e di rose” con tanto di “That’s all Folks” dai Looney Tunes. In piena coerenza con lo spirito barocco, Ceresa meraviglia lo spettatore, prima che sé stesso, ma è opinabile pensare a recitativo e aria come a due parti scollegate e non come spunto per un discorso drammaturgico unitario. Tant’è che proprio l’impostazione dei recitativi scelta da Ceresa a lungo andare sfilaccia la narrazione, tra sedie vuote, leggii e cantanti che vanno e vengono in continuazione tra le quinte e la scena.

Federico Maria Sardelli, specialista vivaldiano, ci ha abituato a scoprire aspetti sempre differenti del linguaggio del Prete Rosso – qui ad esempio c’è il basso continuo senza la tiorba e l’assenza dei fagotti. Sardelli restituisce alla partitura un suono preciso, con dinamiche e colori sempre pertinenti, al netto di qualche incertezza dei fiati nella Sinfonia iniziale che non inficia una prova comunque apprezzabile.

Nel cast si distingue l’Idaspe di Valeria La Grotta che risolve “Nasce rosa lusinghiera” e “Anch’il mar par che sommerga” con ottima padronanza tecnica e vocale, pulita nei passaggi di registro e nelle variazioni più ardue. Ottima Asteria quella di Loriana Castellano, forte di una voce educata, potente e ben tornita, che trova nella arie più contemplative del pasticcio occasione proficua per risaltarne il timbro e il gusto per il fraseggio, coronato dal recitativo accompagnato “È morto, sì, tiranno“. Ruolo arduo quello di Irene a cui Vivaldi affidò due cavalli di battaglia di Farinelli, “Qual guerriero” e “Sposa son disprezzata”: se col primo Lucia Cirillo esce disarmata dal campo, è nel secondo e nella civettuola “Son tortorella” che si fa apprezzare per intensità espressiva. Corretto il Bajazet di Renato Dolcini. L’Andronico di Raffaele Pe pecca di fretta nei recitativi, ma riesce bene in “Non ho nel sen costanza“, durante la quale tenta il suicidio senza riuscirci in una cucina anni Cinquanta, e “Spesso tra vaghe rose”, dove si burla dei castrati imitandone i vezzi. Il Tamerlano di Sonia Prina rimane un mistero.

Consensi unanimi per tutti alla replica del’11 giugno da parte del nutrito pubblico presente.

Luca Benvenuti