Presentato – inspiegabilmente Fuori Concorso – senza il regista al suo seguito, Xue Bao (Snow Leopard) è l’ultimo lascito di Pema Tseden, il regista e autore letterario tibetano tragicamente scomparso a maggio scorso, figura intellettuale di comprovato spessore apprezzata in patria e all’estero – aveva riconosciuto in Locarno e Venezia la vetrina ideale per le proprie opere –, che per primo decise di sottoporsi al giogo della censura e del vaglio preventivo imposto dalla Direzione nazionale cinema della RPC pur di dare spazio sul grande schermo alla lingua, cultura e religiosità della sua terra, che, a causa delle nuove linee guida per la scuola pubblica e dello spopolamento innescato dalle migliori prospettive di vita offerte da altre province del mainland, si trovavano fino a qualche decennio fa sull’orlo dell’oblio.

Attirata dalla notizia che un leopardo delle nevi è stato catturato da una famiglia di pastori, una troupe dell’emittente televisiva nazionale si mette in viaggio per raggiungere il remoto villaggio e girare un servizio di sicuro impatto. Guidati da un giovane monaco appassionato di fotografia – Tseten Tashi, religioso di mestiere anche al di qua dello schermo –, gli inviati si troveranno coinvolti nel dibattito intestino che vede contrapporsi un irruente capofamiglia – l’immancabile Jinpa, protagonista del film omonimo che valse a Tseden il premio per la Miglior sceneggiatura Orizzonti –, determinato a uccidere la belva, e il padre di costui, più propenso a liberarla. Quello che nessuno sa però è che il monaco munito di obiettivo intrattiene un profondo legame spirituale col leopardo, al quale lo lega un debito di gratitudine…

xue bao

Concepito durante il periodo di isolamento forzato della pandemia, Xue Bao prende le mosse da un fatto di cronaca – alcuni poliziotti che, di ronda in un villaggio di montagna in Tibet, avevano riferito di un leopardo delle nevi rinchiuso in un recinto per pecore –, dove la figura del maestoso e solitamente sfuggente felino, imprigionato suo malgrado, è stata di tale impatto per Tseden da fargli impostare l’intero film sull’animale, come è stato possibile apprendere dalle note del suo diario privato – raccolto dal figlio alla sua morte, per assicurarsi che l’opera rispondesse nei minimi dettagli al disegno originale. Dato il momento storico in cui tale idea è stata concepita, con i cittadini cinesi costretti a tumularsi in casa non appena i contagi superavano l’ordine delle decine, non sorprende che il leopardo, figura del regista limitato nei propri movimenti – spaziali, ma anche creativi –, sia diventato protagonista a pieno titolo, richiedendo un massiccio uso di CGI per assicurare il realismo e l’espressività delle sue interazioni con gli interpreti umani – il motion capture è stato eseguito su una danzatrice e attrice di teatro, per l’appunto.

Anche per questo suo sconfinamento nel regno animale, con tutte le semplificazioni linguistiche che ne conseguono – scordiamoci i lunghi silenzi ed ellissi di Tharlo (2015) e Balloon (2019) –, Xue Bao si distingue come il film più accessibile di Tseden, e al contempo il più spirituale nel confrontarsi apertamente con il concetto di reincarnazione, espiazione e ricompensa – in termini karmici, s’intende –, come evidente da scelte di sceneggiatura che si rifanno al Canone buddista – come la parabola della tigre, in cui si narra di come il Budda, in una delle sue vite precedenti come bodhisattva, si fosse offerto in pasto alla madre affamata per evitare che questa divorasse i suoi cuccioli – e di casting, a partire dal monaco Tseten Tashi, uno dei khenpo – nel buddismo tibetano, coloro che, dopo un noviziato di nove anni, dimostrano sufficiente forza spirituale e conoscenza della dottrina per diventare abati – più brillanti della sua generazione, conosciuto in Tibet anche per le sue opere di divulgazione sulla storia e lingua classica della regione.

A sua volta, Xue Bao non è altro che una unica, grande parabola sulla tensione dell’uomo a soggiogare, imprigionare e, talvolta, eliminare quelle espressioni del creato che per loro natura non possono essere assoggettate con la tecnica, richiedendo invece uno sforzo spirituale per essere comprese e accettate. Ritorna la figura di Tseden stesso, quindi, nella specie del leopardo “umanizzato”, ovvero di artista il cui genio può sfuggire alla comprensione generale e talvolta suscitare reazioni di vero e proprio odio, ma che si pone su un piano di scambio dialettico con gli spiriti affini, così come la figura della civiltà tibetana tutta e della minaccia rappresentata dall’egemonia culturale cinese, come si può cogliere dal conflitto che percorre l’intera pellicola: tra la lingua innestata e quella natìa – di cui le nuove generazioni non hanno gran padronanza, come si evince dal personaggio dell’operatore di macchina, non a caso interpretato dall’idol Xiong Ziqi –, tra la tradizione e il progresso, tra la famiglia di sangue e gli affetti per elezione.

Affresco di una società culturalmente e geograficamente spezzata, ma pervaso da uno humor inesauribile dall’inizio alla fine, a sancire le possibilità di conciliazione tra questi due mondi – piani dell’esistenza, in termini più dottrinalmente ortodossi – che una volta erano uno solo, Xue Bao lascia intuire i contorni di una nuova fase del cinema di Tseden, leggermente più didascalica forse ma visivamente e verbalmente più ricca, con uno spessore inedito di personaggi e situazioni. Oltre al cordoglio, resta però la consapevolezza della durevolezza del lascito di Tseden, nonché tanta curiosità: il suo ultimo progetto, dal titolo provvisorio Have a nice trip, sarà completato dal figlio e dai suoi più stretti collaboratori nel corso del prossimo anno.