Il 15 marzo, come annunciato nella conferenza stampa del 2 marzo, è iniziato il Ca’ Foscari Short Film Festival, giunto ormai alla settima edizione. La prima giornata dello SFF ha visto la proiezione dei primi sei cortometraggi nella sezione del Corso Internazionale, tre dei quali verranno brevemente analizzati nell’articolo presente.
Gamlet. Komediya di Eugeniy Fadajev
Il primissimo dei corti presentati è anche il più breve, trattandosi infatti di una semplice sequenza animata di appena cinque minuti. Minimalismo che, oltre a essere evidente nella durata, pervade anche lo spirito generale del corto. Seguiamo una serie di personaggi – o meglio, le loro ombre – stagliarsi davanti allo schermo di una sala cinematografica e destreggiarsi tra le consuete e stereotipate difficoltà: la moglie da bene che tenta di calmare il grezzo marito prima della proiezione, la scolaresca guidata dall’insegnante frenetica, l’uomo troppo alto che ostruisce la visuale altrui etc. Quasi una piccola parodia di Goodbye, Dragon Inn, per certi versi.
Tuttavia nella sua semplicità Gamlet. Komediya ha delle trovate bizzarre e creative, nonostante, appunto, non faccia uso di dialoghi e nessuna animazione più complessa di un contrastatissimo bianco/nero che richiama lo stile delle vecchie e storiche comiche. Cinque minuti leggeri e divertenti dunque, in grado di introdurre alla visione degli altri corti, pur lasciando poco.
Petrel di Charles Broad
Di tutt’altra pasta e provenienza è invece Petrel, con cui dalla Russia ci spostiamo in Australia. L’opera di Broad ha una core narrativa, a differenza del predecessore. Un giovane uomo, sposato ma tormentato dalle continue telefonate della moglie e di un amico, sta percorrendo una strada nel mezzo del nulla. Fermatosi per fare benzina, una serie di incidenti surreali lo costringe prima e lo intrappola poi nella stazione di servizio, facendo affiorare tutto il senso di colpa del nostro unico personaggio.
Il corto ha tutti i crismi per essere considerato uno dei migliori, se non il migliore, della prima giornata. Non solo il baricentro più narrativo (per la natura di un’opera di 12 minuti, per intenderci) colpisce, ma anche la sapienzia asciutta con la quale viene gestito il tutto non lascia indifferenti. Broad con poche e brevi inquadrature ci presenta il suo protagonista, ne chiarisce gli aspetti d’ombra con un’eleganza non da poco.
Senza strafare, senza la solita banale voce narrante, senza monologhi concitati e ipertrofie musicali e visive, Petrel riesce comunque a stupire. Il tono surreale dell’opera non è vuoto “spettacolarismo colto”, ma la soluzione migliore (ricordiamoci sempre che si tratta di cortometraggi quasi del tutto indipendenti) per mettere in scena una spirale di senso di colpa che culmina in un atto estremo.
Il serpente, la rottura iniziale della pompa di benzina, la radio sono tutti elementi che fanno presagire l’andamento di Petrel senza scalfirne la forza, che anzi risalta grazie a tutta un’altra serie di piccolezze che vanno a costituire l’effettivo nucleo del corto. Da notare sono infatti il calore che Broad fa trasudare dalla fotografia (giallastra, opaca nonostante la parecchia luce) e dall’ambientazione sporca e sudata, come è sporco e sudato il protagonista senza nome, ma anche l’uso della parola: le imprecazioni, anche comprensibili, di una persona sola dinanzi a una serie di sorprese negative, dominano il (poco) parlato del corto, lasciando spazio però a un unico, disperato “c’é qualcuno?” che lascia intravedere il tormento interiore generato dal senso di colpa.
Goldfische di Facundo V. Scalerandi
Ci spostiamo in Germania per l’ultimo corto, il più lungo del blocco, potendo vantare una buona mezz’ora di durata e una parte narrativa piuttosto massiccia. Fondamentalmente si tratta di un gioco di specchi sulla natura del rifiuto e quella della menzogna. Un padre di famiglia non riesce a giustificare e spiegare ai figli l’assenza della moglie (che li ha lasciati di punto in bianco, a quanto pare), mettendolo in una serie di situazione molti sconvenienti e imbarazzanti dal punto di vista genitoriale.
Ma più procede nella visione più lo spettatore si accorge di quanto questo cruccio sia ormai penetrato nell’essenza stessa del padre, che non riesce per nulla ad affrontare l’argomento perdita/morte con i figli, al punto da sostituire l’eponimo pesce rosso regolarmente ogniqualvolta quello precedente muore (e da conservarne una scorta per comodità) e persino da cercare un nuovo maggiordomo il più possibile somigliante a quello precedente, spirato mentre aiutava il padrone con la faccenda dei pesci rossi.
E con leggerezza il gioco si ribalta, ormai l’anziano padre è vittima del suo stesso gioco e sono i figli, cresciuti, a dover mentire a lui, fingendo di credere alla messinscena. Giochi che verranno entrambi distrutti dal ritorno della madre, che verrà rifiutata da tutti proprio perché la sua essenza riguardava ormai l’ordine della menzogna. La regia di Scalerando è molto piana, e non rende forse giustizia al dualismo (sempre meta-cinematografico) tra vero e menzogna.
In sostanza Goldfische riesce a imporsi nella mente dello spettatore per l’ottima tessitura ma pecca di pretenziosità, è troppo ingenuo e si prende invece troppo sul serio per mettere in scena la storia tralasciando di mettere in scena se stesso, il che sarebbe risultato invece probabilmente molto più interessante e sfaccettato, anche se a conti fatti l’impressione che lascia è più che discreta, nella sua pur ingenua e codificata eleganza.