Dopo un paio di stagioni di grande qualità e una terza ridotta a un unico macro-episodio per ragioni economiche, Black mirror ritorna nel 2016 con una vera e propria terza annata. Ma cosa è cambiato?
Come si accennava nella recensione della scorsa stagione, dopo l’annuncio della cancellazione, Netflix è intervenuto in soccorso di Channel 4 per salvare Black mirror dalla cancellazione. Così il 21 ottobre di quest’anno il servizio streaming ha rilasciato tutti e sei gli episodi (il doppio rispetto alla precedente stagione ordinaria) ottenendo un’immediata e più che positiva reazione da parte del pubblico, ora decisamente differente e più numeroso rispetto agli anni scorsi.
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Il plot
Nel concreto, quindi, la prima domanda che sorge è come la gestione Netflix abbia influito sul prodotto. Chi scrive pochi mesi fa sperava, per quanto difficile, che la piattaforma concedesse la stabilità a una serie che non ne aveva mai avuta. Questo è successo in effetti, Black mirror ha avuto il supporto economico necessario e il battage pubblicitario è stato eccellente, ma il cambio di produzione e distribuzione ha decisamente cambiato le carte in tavola, nonostante alla scrittura sia rimasto il creatore Charlie Brooker e la struttura della serie (episodi stand-alone legati solo dal tema della tecnologia) non abbia subito variazioni.
Come per le prime due stagioni dunque, quest’articolo sulla terza cercherà di svolgere una panoramica sulla stagione senza dimenticarsi di focalizzarsi brevemente su ciascun episodio, di cui adesso daremo brevemente i plot in linea di massima.
In Nosedive, Lacie (Bryce D. Howard) deve fare da testimone di nozze a una vecchia amica in un mondo di fatto regolato da un unico social network che assegna agli individui un punteggio in base al giudizio degli altri, che divide la società in varie classi, mettendo a disposizione o negando vari servizi determinando così la vita dei singoli.
In Playtest, Cooper (Wyatt Russell), turista a corto di contante, si offre volontario per testare un nuovo videogioco horror che finirà per mettere alla prova la percezione che Cooper ha di sé stesso, esplorando pericoli e limiti della mente umana.
In Shut up and dance, un misterioso individuo ottiene tramite internet una serie di contenuti compromettenti su una serie di persone comuni, tra cui Kenny e Hector (Alex Lowther e Jerome Flynn) per costringerli con il ricatto a compiere una serie di azioni allucinanti.
In San Junipero, assistiamo alla nascita e allo sviluppo del rapporto amoroso tra Yorkie e Kelly (Gugu Mbatha-Raw e Mackenzie Davis) a cavallo tra realtà e un mondo virtuale pensato appositamente per garantire una seconda vita.
In Men against fire, il soldato Stripe (Malachi Kirby), arruolatosi in un corpo militare statale con il compito di proteggere i civili da strani essere sub-umani, inizia a dubitare delle motivazioni fornitegli quando il suo MASS (futuristico mezzo dell’esercito radicato direttamente nel cervello dei soldati) inizia a mostrare segni di malfunzionamento.
In Hated in the nation, il detective Karin Parke (Kelly McDonald) deve indagare su una serie di omicidi che sembrano essere guidati da uno strano gioco che si svolge su Twitter, sull’onda della vena aggressiva degli utenti medi.
La serie
Come si accennava prima, il passaggio da Channel 4 a Netflix ha cambiato decisamente il pubblico di Black mirror, ampliandolo. Quindi la piattaforma si è trovato nella posizione di dover “ampliare” conseguentemente la serie, perché soddisfacesse il proprio pubblico medio; dunque, la serie doveva essere più accessibile. Sulla base di questo, appare palese la motivazione delle scelte che hanno guidato questa stagione.
In primis il cambiamento coinvolge l’attaccamento alla realtà dei singoli episodi. In breve, la fantascienza non è solo un genere su cui costruire alcune puntate per veicolarne meglio la riflessione (come nei primi sei episodi), ma diventa un elemento quasi onnipresente di questa annata: solo un episodio della sestina può essere ricondotto a quella dimensione del reale che tanto ci ha inquietato gli anni scorsi, allontanando così i ragionamenti sulla realtà tecnologica da quella del pubblico, senza coinvolgerlo direttamente. Episodi come The entire history of you o Be right back obbligavano il singolo spettatore a interrogarsi sulla propria vita familiare, e The Waldo moment lo costringeva a riflettere sul legame tra l’aspetto mediatico e le proprie decisioni politiche. Le puntate della terza stagione hanno uno spirito più borghese, focalizzando l’attenzione dello spettatore su argomenti più astratti, senza che questi sia costretto a mettersi in gioco direttamente, depotenziando così lo spirito dell’intera serie.
In secondo luogo, c’è una certa trasversalità di genere in questo terzo ciclo; togliendo primo e terzo episodio (utopia/distopia e drama-thriller, generi già ampiamente esplorati, sia nella scorse che in questa stagione, con esiti qualitativi molti diversi nell’ultimo caso), gli altri quattro, pur con il succitato preminente elemento sci-fi, si articolano secondo generi come horror, romance, guerra, e giallo. Dunque si cerca non più lo spettatore che è interessato alla serie (o meglio, non solo costui), bensì esplorare nuovi generi significa anche rivolgersi a nuove fette di pubblico con il singolo episodio e non più con la serie in toto. Di per sé è un fatto che svilisce lievemente lo spirito generale dell’opera però si sposa bene con la creatività di Brooker, con più possibilità sotto Netflix che con Channel 4. Questo permette allo sceneggiatore britannico maggiore libertà creativa rispetto alle scorse annate, ma non è possibile non notare come gli equilibri siano cambiati con il trasferimento di piattaforma. Si tratta da un lato di un’ulteriore crescita del singolo episodio, che acquisisce sempre più autonomia (anche registica, come si vedrà successivamente), ma dall’altro di un piccolo passo indietro nei confronti della seconda stagione, che aveva sviluppato il suo trittico in una climax ascendente.
Nonostante i cambiamenti dettati dalla venalità del concetto televisivo americano che ha dovuto compenetrare un prodotto fino a poco tempo prima al 100% britannico, non è certo possibile valutare una stagione di Black mirror da un’analisi generale e di natura comparativa. Quindi come ormai giù fatto ben due volte, vi si propone un sommario focus spoiler-free su ogni episodio.
Gli episodi, non avendo nemmeno in questo caso un ordine di trasmissione, ma essendo stati pubblicati tutti assieme alla stessa ora, sono guardabili in qualsiasi sequenzialità lo spettatore desideri, a seconda della disponibilità dovuta alla durata eccetera; in questa sede di sceglie di seguire lo stesso ordine della lista di Netflix perché il primo episodio di essa è anche quello da cui è più sensato iniziare a discorrere, permettendo di parlare della stagione attraverso l’episodio stesso.
Nosedive e Playtest: l’allontanamento e la trasversalità di genere
Nosedive è l’episodio di apertura, e, curiosamente, l’unico non sceneggiato da Brooker, che ha scritto solo il soggetto, mentre il teleplay è stato affidato a Michael Schur (scrittore veterano del Saturday Night Live e di molte tra le comedy americane più di successo) e l’emergente Rashida Jones. Il punto, come è facilmente intuibile, è che Nosedive, essendo il primo episodio della lista, è quello che per ovvie ragioni sarebbe stato guardato per primo da coloro che si avvicinavano a Black mirror senza l’esperienza delle annate precedenti. Questo ha permesso alla piattaforma un maggiore controllo su quello che sarebbe stato un episodio importante per il futuro della serie: con un primo episodio con caratteristiche (di cui scriveremo) di tale accessibilità, si cerca il favore di una più ampia fetta di pubblico, aprendo le porte del mondo dello specchio nero anche a spettatori non abituati al tipo di televisione che esso incarna. Che sia considerabile un tradimento? Non appieno, nonostante tutte le polemiche che si possono fare, non è criticabile la scelta di piccoli compromessi nei pilot (anche se usualmente di natura narrativa) per non tagliare fuori subito una certa fascia spettatoriale. Passando agli aspetti concreti, vediamo ora perché Nosedive incarna una perfetta premiere per questa stagione, e perché è così accessibile.
Come già evidente dal riassunto della trama di cui sopra, l’episodio si regge su di un evergreen delle discussioni sulla tecnologia in ambito moderno, ovvero i social network, su cui sono state spesi fiumi di parole, in relazione all’ambito giovanile, a quello lavorativo, a quello sociologico, e in generale al cambiamento del piano relazionale che hanno comportato. Ora, si potrebbero fare altrettanti discorsi sui parallelismi con la teoria delle maschere di Pirandello e relativa perdita dell’individualità, ma c’è una questione che preme trattare, ovvero se nel 2016 una serie come Black mirror possa dedicare un episodio alla cultura dell’immagine e della finzione perbenista di quel mondo. Da un punto di vista contenutistico, infatti, Nosedive è vuoto come il mondo che critica. Per la stragrande maggioranza dell’episodio assistiamo semplicemente alle stesse manifestazioni di ipocrisia (che altri episodi di Black mirror risolvevano in cinque minuti e con maggiore acume critico) fino a una catarsi finale ben confezionata ma prevedibile.
Il punto però è la pochezza della riflessione veicolata dell’episodio, attraverso un gestione ripetitiva e una soluzione inter-puntata che fa storcere il naso, come quella della camionista che dà un passaggio alla protagonista, la quale le racconta di avere un punteggio bassissimo (vivendo così come un’eremita) perché, dopo la morte del marito ha iniziato a dire quello che pensava. Quindi è necessario subire una tragedia che risvegli il singolo per prendere le distanze da tutto? Che l’apprezzamento di un pubblico e la possibilità dei 15 minuti di celebrità invoglino non ci sono dubbi, ma Nosedive non approfondisce nessun aspetto, smuove soltanto una riflessione facilona e pigra sulla società delle maschere, e lo fa fuori tempo. Sarebbe stato più interessante vedere il funzionamento di un mondo del genere, nei suoi aspetti politici, e non solo sociali.
Certo la qualità generale non si affossa, la gestione della forma è ottima. La regia di Joe Wright, famoso per i suoi adattamenti dal carattere teatrale, è ottima nel gestire questo mondo/palcoscenico dai colori pastello che mira alla perfezione delle apparenze, e la colonna sonora, che mescola una semplice soundtrack ambient con gli effetti sonori di thumbs up o downvotes trasmette un senso d’ansia notevole visto l’episodio in questione. Però questo o la perfezione scenografica non bastano a sviare l’attenzione dal nucleo vuoto della puntata, che si configura come la peggiore non solo della sestina, ma di tutta la serie sinora. Basti pensare che Community, serie comedy conclusasi l’anno scorso, con l’ottavo episodio della quinta stagione App development and condiments ha detto di più, in un terzo del tempo e con un approccio meramente comico.
Playtest, dunque, si trova sulle spalle un debito piuttosto pesante a cui rimediare, visto che Nosedive lascia molto a desiderare. L’argomento è un sempreverde delle discussioni di tutti i giorni, ovvero il mondo videoludico, anch’esso bersaglio di parecchie polemiche, anche qui in Italia. Ma Brooker, da quest’episodio in poi sempre alle redini della sceneggiatura, non insiste troppo su quest’aspetto preferendo concentrarsi invece su un parallelismo sfaccettato tra mente umana e rete virtuale.
Il videogioco che viene testato da Cooper, interpretato dal figlio di Kurt Russell, che per l’evidente somiglianza non può che riportare alla mente degli estimatori di Carpenter il personaggio di Jena Plissken (non stonando affatto con i toni della serie), è un horror futuristico, in grado penetrare nella rete neurale del giocatore estrapolandone le paure, del conscio e del subconscio, per andare a rappresentarle dopo, dando così vita a un horror autenticamente tale e veramente in prima persona, senza nessun avatar, solo con il proprio sé di fronte ai propri timori. Da questo punto di partenza Brooker costruisce vari livelli di realtà, dal videogioco al di fuori di esso (nella realtà) e nei meandri dello stesso. Quindi l’avventura di Cooper nel videogame inizia con i migliori stereotipi della tradizione horror, dai ragni giganti a spiacevoli ricordi dell’adolescenza, fino a quando il software (che gira sull’hardware della mente del protagonista) non scava più in profondità, portando all’attenzione dello spettatore il dualismo mente/computer di cui sopra.
La tecnologia in generale nasce come sostituzione o aiuto delle limitazioni delle capacità umane, siano esse fisiche o mentali. Quindi ciò che contraddistingue l’umano da internet è l’identità di sé, a questo punto. Ciò che dunque il gioco deve fare, per realizzare se stesso, è annullarsi. Eliminare la concezione di se stesso: non ci può essere reale paura se il giocatore sa di essere nel mondo virtuale, conscio del fatto di trovarsi in uno spazio immaginifico e conscio della possibilità di uscirne in qualsiasi momento per qualsiasi motivo con una parola di sicurezza. La nostra identità ci viene dalla memoria e dalla percezione di noi stessi, e in Cooper notiamo, pur sempre all’interno di una caratterizzazione psicologica coerente e realistica, un’esagerazione di questo aspetto. È spavaldo, sicuro di sé, un po’ tontolone forse, e il software in soli 4 centesimi di secondo e grazie a un caso fortuito, percepisce la paura più recondita di Cooper e la tira fuori con quello che per il protagonista e lo spettatore è un tempo scenico ben più lungo. In un turbinio semplice ma ben costruito di finte realtà, Cooper vede svanire se stesso, fino a perdersi, dimostrando come l’uomo possa svanire dinanzi alla macchina, che comprende uno spazio-realtà molto più ampio del vivente, proprio perché non sa cosa sia un’identità, e nemmeno ne necessita.
Il regista dell’episodio e Dan Trachtenberg, veterano del genere horror, che svolge con precisione il suo lavoro; i movimenti di macchina sono sempre pochi ma precisi, e cerca il movimento il meno possibile, attraverso un montaggio lentissimo che aumenta il terrore generale. Trachtenberg nel rispettare la sceneggiatura di Brooker ne mantiene anche il ritmo, costruendo una prima parte (circa 25 minuti) di pura preparazione a ciò che seguirà, caratterizzando Cooper con meticolosità, costruendolo per poi distruggerlo, come personaggio e come essere, nella seconda parte dell’episodio.
Nel complesso dunque Playtest allo stesso tempo riporta la serie sui passati binari per intelligenza di critica, ne espande il raggio d’azione attraverso il genere e sempre mediante la svolta horror si configura come un episodio originale, carico di novità; così facendo va a costituire un unicum molto interessante nel mosaico di Black mirror, pur lasciando il primato nel terzo ciclo agli episodi centrali.
Shut up and dance e San Junipero: inquietudini di presente e futuro
Shut up and dance dunque, assieme all’immediatamente successivo San Junipero, è il miglior episodio della prima stagione targata Netflix, essenzialmente per la gestione che si fa del suo elemento realistico, al contrario della puntata seguente, che riesce a uguagliarne gli standard distanziandosi totalmente dall’inquietante possibilismo di questo terzo episodio per muoversi su orizzonti quasi metafisici, più che tecnologici.
Shut up and dance, come già accennato, torna sui binari percorsi da National anthem o The Waldo moment, ovvero quelli del crudo realismo e della caratteristica di poterli collocare nell’esatto tempo presente. In breve, ci riporta all’origine della spina dorsale della serie di Brooker, a metà tra thriller e grottesco, attraverso una storia che coinvolge diverse persone comuni messe di fronte alla possibilità della gogna mediatica. Diversamente da White bear, però, non si sofferma sul voyeurismo, sull’arroganza popolare che si fa giuria corrotta a disposizione del giudice mediatico, analizza invece la concreta reazione di una persona che tenta di salvare se stessa, o quantomeno le apparenze. Perché nonostante la semplicità narrativa lo snodo trai vari livelli di questo terzo episodio è incredibilmente complesso.
In primis, si nota come, nonostante la presenza di un episodio come Nosedive (incentrato sul tema apparenza/essenza) Shut up and dance riesca a comunicare di più sullo stessa linea tematica senza soffermarsi in maniera tanto prolissa. In Hector, ad esempio, non si nota mai rimpianto per l’azione compiuta. Ha fissato un appuntamento (preceduto da scambi di materiale pornografico) con una prostituta ma, a suo dire, solamente per noia. La sua famiglia è perfetta, e non deve essere assolutamente rovinata da un caso isolato, ma in lui non si scorge mai un pentimento né un semplice ripensamento. A partire da questo si delineano due tematiche chiave della puntata. Appunto, salta all’occhio come la riflessione sul tanto decantato tema delle apparenze sia molto più cinica. Non c’è assolutamente bisogno di mostrare perfezione né tantomeno una maschera, basta semplicemente nascondere il mostro, il perturbante; che a sua volta però non è autonomo, nasce proprio dalle possibilità garantite dalla rete: la moralità si annulla dinanzi alla garanzia di un (apparente in questo caso) anonimato. Quindi Hector ama davvero la sua famiglia, non un borghese frustrato come quelli dipinti dalla nouvelle vogue anni ’70, non deve mostrarlo, perché è vero. In secondo luogo, dunque, si ragiona di come la rete sia lo strumento che fa esplodere una parte di Hector che altrimenti sarebbe rimasta sopita: non si parla di nulla di trascendentale, ma di un “l’occasione fa l’uomo ladro” dei tempi moderni.
Ma arrivando al punto chiave, perché Shut up and dance è così efficace? Per l’inconsueta sfida per livelli che viene proposta di continuo allo spettatore: “tu lo faresti”? I personaggi sono sotto ricatto, e Brooker, mettendoli nella stessa situazione in cui potrebbero ritrovarsi altre decine di persone per un motivo o per l’altro, non fa che chiederci quanto siamo disposti a rischiare per nascondere una parte di noi che credevamo nascosta nell’internet ma che qualcuno è riuscito a trovare. L’esempio di Hector arriva fino all’estremo (anche se ci può essere di peggio) ma buona parte del resto che ci viene mostrato, in altri contenuti televisivi è stato da tempo completamente sdoganato, dalle battute sul razzismo a quelle sulla masturbazione, e via dicendo. Così lo spettatore segue i due agitati e nervosi protagonisti in un turbinio di ansia che li vedrà rapinare una piccola banca, arrabbiarsi, affrontare in prima persona le prospettive dell’odio di internet dinanzi alle incertezze durante il “viaggio”, e successivamente separarsi per vedere le proprie speranze miseramente infrante.
Il finale è infatti il colpo finale che atterra violentemente lo spettatore, con un senso-non-senso che travolge i personaggi e ammazza ogni teoria riguardo vigilanti, punizioni e riflessioni sulla giustizia: non c’è condanna, come in White bear, i peccati registrati dall’internet non sono che strumenti di cui il colpevole/i colpevoli fa/fanno uso per creare una sorta di gioco malato, di reazione a catena che vada a svelare, a mostrare al mondo reale quello di cui un qualunque essere umano è solitamente capace su internet, che dimostra più di qualunque altro episodio dell’annata quanto questo internet sia preda del circolo vizioso di riversamento dell’odio dall’esterno all’interno e viceversa. In questo senso se proprio è necessario un parallelismo assomiglia di più a National Anthem. Anche il ritorno tecnico alle origini (regia dell’emergente Ben Watkins) non fa che rinvigorire lo spirito dell’episodio, che subordina più di tutti gli altri la forma al contenuto allo scopo di renderlo più duro, aspro, in modo da rendere più facile l’immedesimazione dello spettatore, che, come ormai si sarà già compreso, è il nucleo di Shut up and dance.
San Junipero, invece, ammazza completamente (in più modi) l’elemento del tempo presente per dipanarsi, almeno nella maggioranza della narrazione, in una dimensione altra, un futuro fatto di passati, intercambiabili, scollegati. In questo molteplice e cangevole non-luogo si svolge la storia d’amore tra Yorkie, una ingenua ragazza di campagna e Kelly, più disinibita.
San Junipero è un episodio in cui la svolta di metà puntata torna ad essere decisiva, dividendo esplicitamente l’episodio in due, e serbando solo per la seconda parte una spiegazione sulla vera natura di San Junipero. La prima metà è una sincera storia d’amore, nata in maniera strana, quantomeno per la gestione del montaggio “a week later” (una settimana dopo) che suddivide i vari siparietti, e volutamente confusionaria nei confronti dello spettatore, si sviluppa successivamente in modo classico, seguendo un canonico reciproco conoscersi nell’arco della prima mezz’ora di episodio. Appare chiaro dunque come questo sia certo un episodio atipico per Brooker, che però riesce a gestire sapientemente sorpresa e novità per incanalare il flusso dell’episodio in un altro perfetto discorso sulla trascendenza nel rapporto uomo/macchina. Volendo si potrebbe definire questo quarto episodio come una versione migliorata di Be right back, primo episodio della seconda stagione. Ma qui non vediamo la macchina trascendere l’uomo, ma direttamente la natura umana, sotto forma di una rivisitazione cyperpunk del Paese dei Balocchi.
Oltre a questionare la nostra concezione della realtà, quindi, trascinando la narrazione in una dimensione altra, che però non ha nulla da invidiare alla realtà che conosciamo noi, Brooker riporta il concetto di definizione tramite l’opposto alla nostra attenzione. San Junipero è il Pease dei Balocchi, semplicemente perché esso è una seconda possibilità, non un’infantile terra di perdizione: la gente ci può giocare, letteralmente, sperimentando una seconda vita, evadendo completamente dalla propria realtà, con ampi poteri di manipolazione su tutto ciò che li circonda, al di fuori degli altri “avatar”. Siamo di nuovo in un vdeogioco quindi, o quantomeno in qualcosa che ci assomiglia, ma la capacità unica del luogo è quella di eliminare i limiti della realtà umana.
In breve, ai malati terminali e o chi versa in situazioni simili è concessa la possibilità di trasferirsi a “San Junipero”, dopo aver abbandonato il corpo fisico. Quindi, attraverso una semplicissima storia individuale, Black mirror crea un paradiso artificiale, uno spazio virtuale (che però diventa più reale di ciò che lo è poiché dalla sua ha l’eternità) che diventa l’aldilà, la vita oltre la morte, che però annichilisce il primo concetto nello stesso momento in cui annichilisce il secondo. Questo è il punto di San Junipero, mostrare come la mente umana, e il mondo che la circonda siano estremamente fragili, e di conseguenza espandibili fino a essere inseriti all’interno di un cimitero che permette quasi la nascita di un altro genere umano.
Ovviamente il punto focale dell’episodio sta nel rapporto tra Yorkie e Kelly, affrontato con dolcezza e grandissime interpretazioni, gestite da Owen Harris, mestierante esclusivamente televisivo, sulla cui regia (anonima) c’è poco da dire se non che lascia una grande libertà agli interpreti, assecondandone le performance con soavemente semplici movimenti di macchina. Ergo, come qualsiasi fiction di genere romantico, si concentra sulle scelte delle protagoniste, sui contrasti, sulla promessa di amore eterno, nel vero senso del termine, in questo caso. Ma ciò che serpeggia per tutta la durata dell’episodio e che esplode malinconicamente nel finale è la totale assenza di umanità. Mi spiego meglio: Yorkie e Kelly affrontano una scelta difficile, e il tono dolceamaro della puntata nasconde paura, soprattutto, ma ci rivela come San Junipero, nonostante le infinite capacità, nasconda una grandissima insidia: l’eternità come già detto annulla la vita, pertanto vi sarà sicuramente un punto oltre il quale sarà meramente noia e quella. Ciononostante le due decidono comunque di vivere la loro vita insieme lì, nonostante le conseguenze, i loro organismi parte di un cimitero virtuale che affonda le proprie radici in un ammasso di server in un magazzino, la loro vita destinata, tra anni, al vuoto assoluto. Al contempo un lieto fine che nasconde la totale assenza di qualunque cosa nel prossimo futuro, un infelicità senza pari attraverso la condanna di falsa carnalità, e un disperato inno alla natura umana.
Men against fire e Hated in the nation: di Black mirror e del suo pubblico
Per quanto concerne gli ultimi due episodi del ciclo, è interessante notare come, avvicinandosi molto più silenziosamente dei primi quattro alla quotidianità degli spettatori, abbiano suscitato, nel già più volte citato “pubblico allargato”, reazioni molto diverse a spesso in contrasto con il senso dell’episodio stesso.
Men against fire, nello specifico, attraverso un contesto preminentemente bellico, rivisita, in parte e da un determinato punto di vista, quello che è uno dei temi più classici del genere, ovvero il problema del diverso. Il “noi e loro” è un concetto esplorato in lungo e in largo da cinema e televisione dalla nascita di questi, sociologicamente ma anche a livelli più emozionali.
Ma ciò che più sconcerta, per l’appunto, è lo spettrogramma di reazioni della platea la parte più interessante e da cui partire per avere un’angolazione migliore da cui osservare per far il punto dell’episodio. Sia pubblico che critica hanno visto in Men against fire riferimenti alla guerra in Vietnam, agli scontri moderni dovuti alla minaccia ISIS, alla teoria schmittiana della guerra globale, fino alle elezioni americane, perdendo probabilmente di vista il senso generale dell’episodio, e attribuendo alla “parte tecnologica” una funzione esclusivamente formale, di predisposizione. Il fulcro del discorso di Black Mirror non si perde infatti all’interno di una problematica di genere né tantomeno formale.
Proprio il fattore tecnologico in quest’episodio più che negli altri svolge un ruolo importante, portando di nuovo in primo piano il dittico realtà/conoscenza. La linea tematica principale della puntata riguarda la propaganda, nelle sue forme e nei suoi effetti. Solo secondariamente a tutto ciò entra in gioco il discorso noi/loro, che nella sua incarnazione a livelli sociali e politici è diretta emanazione della stessa. Quindi Men against fire si dipana sulla seguente prospettiva: fino a che punto la mente umana è suscettibile alla propaganda, e fino a che punto essa può ingannarne le percezioni.
Il MASS-System non è nient’altro che la metafora in stile cyberpunk del condizionamento ideologico stesso, mentre è la questione eugenetica a essere di contorno. Brooker in quest’episodio dosa benissimo i vari nuclei tematici privilegiando il livello politico della questione, perché è anche quello più vicino alla società contemporanea: con la propaganda la gente ha a che fare ogni giorno o quasi, con l’eugenetica certo no. Come una campagna pubblicitaria ci porta all’acquisto di un prodotto, come i media ci vendono le informazioni, eccetera, ebbene, così funziona il MASS-System, un sistema che fornisce informazioni ai membri dell’esercito sia nelle azioni belliche e non, come un server che riceve ed estrae pacchetti dati inviati direttamente nel cervello del singolo individuo. Esso altera la vista dei soldati, facendo credere loro che i nemici da sconfiggere sono una pericolosa e bestiale tazza sub-umana chiamata “roaches” (scarafaggi).
Ma perché tutto questo? Ecco quindi entrare in gioco nella seconda parte il discorso sull’eugenetica, qui niente di più di un obiettivo come un altro da raggiungere circuendo una piccola parte della popolazione. I roaches sono umani come tutti gli altri, di per sé trascendono il concetto di razza, sono definibili piuttosto come un insieme di individui che non possiedono geni favorevoli per un ulteriore sviluppo della razza umana (cioè sono più soggetti a malattie cardiache, del sangue, disturbi della personalità). Quindi, come spiega benissimo il monologo finale di uno straordinario Michael Kelly, il MASS non è nient’altro che uno straordinario strumento di condizionamento, fino a potersi paragonare a un lavaggio del cervello, in virtù della sua efficacia, e l’eliminazione dei roaches è un obiettivo grazie a esso raggiungibile e quindi da mettersi in pratica senza riserve.
Complice la regia del mestierante televisivo Jakob Verbruggen, che utilizza spesso la prima persona, e l’andamento onirico della fotografia, che inframmezza improvvisi elementi di luminosità al quasi onnipresente grigiume, Men against fire è un episodio che ci riporta alla questione della debolezza della moralità umana, retta da paletti meramente convenzionali, a quanto la tecnologia nella sua totalità sia ormai fondamentale alla società moderna, come fonte tanto di risorse quanto di comune informazione, alla gigantesca potenza che essa può esercitare indipendentemente della dimensione dell’utente e quindi della persona. E, come summa di tutti questi fattori infine, ci fornisce l’esempio di come un mezzo materiale che potrebbe veramente permette l’attuarsi di una condizione inimmaginabile. Essi vivono, noi dormiamo.
Hated in the nation ci riporta, come un riassunto di fine stagione, alla tematica dell’odio, come fulcro dei cinque episodi precedenti, attraverso la costruzione di un giallo, quadrato nella costruzione e nella forma, che indaga il mezzo della rete (più che quello tecnologico generalmente inteso) come perfetto seppur involontario strumento di diffusione dell’odio. Come il precedente, anche quest’episodio è decisamente controverso, ma questa volta nell’ambito formale, senza che si renda necessario un parallelismo con la dimensione spettatoriale.
Dunque il primo elemento che qualifica immediatamente la puntata come un season finale-summa è la durata, di quasi 100 minuti. Un film praticamente. Hated in the nation ha la durata doppia di un episodio televisivo normale, ma si dipana con lo stesso ritmo delle puntate precedenti, ottenendo come risultato una prima parte più che interessante, densa e solida che però viene smontata dagli ultimi 40 minuti, che risolve in modo quasi distratto il caso e non corona, smorzandoli, tutti i punti che l’episodio andava a toccare: la leggerezza dell’utente che naviga, il cyberbullismo (nelle sue forme più crudeli), la sorveglianza governativa, la dipendenza della società dalla tecnologia da un punto di vista alimentare.
James Hawes, ennesimo mestierante della tv inglese e non solo a prendere parte al progetto di Netflix, non riesce purtroppo a stare dietro alla narrazione, allargandosi più del necessario, prendendo tempo quando non ne serviva, ottenendo soltanto un accumulo di tensione che non riesce a soddisfare in seguito. Ma al di là di questa mancanza di ritmo, riconducibile al carattere più sperimentale dell’episodio in questione, Hated in the nation non riesce mai davvero a convincere, da un punto di vista meramente televisivo. I temi trattati trovano perfetta collocazione e il “gioco delle conseguenze”, un sistema inventato dal “colpevole” che permette di far eleggere ogni la persona più odiata dagli utenti per poi ucciderla, colpisce per la sua durezza e brutale efficacia, andando a individuare le colpe in ogni persona che vi partecipa. Come già visto, e solo all’interno di quest’ultima stagione, in Shut up and dance, l’internet filtra la realtà dell’utente, portandone a galla il lato più aggressivo, crudele, e nell’episodio di Hawes l’obiettivo è fermare chi ne approfitta per svolgere la funzione di giustiziere.
Non siamo dunque dinanzi al “troll”, ma dinanzi all’incarnazione più radicale di un “social justice warrior”, che non si fa remore a dichiarare meritevole della pena di morte chiunque si ritrovi nel mirino dell’odio della rete, anche per i motivi più stupidi, come un’uscita infelice o una provocazione mal riuscita. Il punto della puntata è proprio ragionare su come ripartire la colpa, superando l’esecutore materiale, e come considerare l’influenza che un attacco di migliaia di sconosciuti può avere sul singolo, tanto da istigarlo al suicidio, o costringerlo a isolarsi. Quanto sono responsabili costoro, e in che misura vanno puniti? Ovviamente Black mirror si limita a porre la domanda, senza rispondere definitivamente, com’è logico che sia in questi casi.
Il problema, come si diceva prima, riguarda i rami piuttosto che il troncone principale; tralasciando appunto il nucleo del circolo vizioso dell’odio, l’episodio lascia una serie di questioni in sospeso, come il mezzo che il giustiziere usa per portare a termine i suoi omicidi, o sbriga in maniera disattenta alcuni plot-twist, sminuendo l’episodio stesso. Gli assassinii vengono compiuti attraverso mini-robot con le sembianze e le funzioni di un’ape, pensati per provvedere all’impollinazione dei fiori rimpiazzando le vere api, in via estinzione. Dopo la scoperta che queste erano in verità equipaggiate con sensori per fornire sorveglianza audio e video costantemente al governo (un’eco di Person of interest?), però, la questione non viene più affrontata, considerandone solo l’aspetto narrativo e lasciando stare conseguenze varie, cadendo quindi nello steso errore di Nosedive. Ancora una volta una questione non viene affrontata nella sua interezza, per lasciare spazio e considerazioni molto meno interessanti, tralasciando poi di trovare un sistema di motivazioni coerente dietro le azioni del colpevole, preferendo rifugiarsi in un colpo di scena piuttosto collaudato, anzichè cercare di stupire.
Comunque, da un punto di vista generale la qualità dell’episodio rimane molto alta, trattando soprattutto nei primi 45 minuti un tema delicato con sapienza e capacità. L’aspetto formale ha sicuramente qualche difetto: per essere un giallo, Hated in the nation, di un giallo non ha niente e rappresenta un pessimo esempio di genere, ma, tutto sommato, mantiene intatto lo spirito critico di Black mirror.
Cosa aspettarsi dalla quarta stagione
Nonostante tutto, Netflix, pur avendo influito sullo spirito della serie, non ha mai mancato di dimostrare fiducia alla stessa, tant’è che già al momento dell’acquisto da Channel 4 aveva promesso almeno 12 episodi. I primi sei erano la terza stagione, i prossimi comporranno la quarta, in uscita nell’autunno 2017. La terza è stata una stagione con alti e qualche basso, come sinora durante il periodo inglese, il cui giudizio complessivo risulta leggermente complesso per via della mancanza di unità narrativa tipica di un prodotto di tale risma. Un giudizio complessivo non può che essere frutto soltanto di una media ponderata del giudizio sui singoli episodi, decisamente interessanti, nel bene e nel male, anche quest’anno. Neftlix ha certamente cambiato le regole alla base della serie, tuttavia, a conti fatti, non si può criticare troppo la via che hanno scelto per questa sestina: con pregi e difetti è stato un cambio di rotta che dà nuova linfa. Attendiamo fiduciosi quindi la quarta stagione, sperando in nuova originalità che riesca, assieme alla stabilità che la piattaforma streaming può garantire e alla sempre solida scrittura di Charlie Brooker, a rendere Black mirror una serie degna di essere ricordata per anni.