Nico, 1988, Miss Marx e ora Chiara: tre figure femminili il cui nome dà il titolo al film, tre figure femminili scoperte andando indietro nel tempo con biografie parziali e ragionate, tre figure femminili a cui Susanna Nicchiarelli attribuisce un sottovalutato peso politico.
La storia di Chiara d’Assisi – qui interpretata da Margherita Mazzucco – è ben conosciuta e come suo solito Nicchiarelli non intende limitarsi a un prodotto didascalico che funga da bignamino per conoscere una figura più o meno storica ancora capace di avere riverberi sulla vita culturale della contemporaneità, ma cerca invece di strutturare un ritratto a tutto tondo, pregno di interessamento personale e psicologistico, di personaggi a cui viene attribuita una forza simbolica. In quattro quadri separati da svariati anni l’uno dall’altro, la regista italiana ci racconta l’iniziazione di Chiara alla vita francescana dopo la fuga dal padre, il consolidamento nel ruolo di guida spirituale al fianco di Francesco – Andrea Carpenzano -, il dialogo frai due quando questi decide di scendere a compromessi con la Chiesa, e infine la fondazione dell’ordine indipendente delle clarisse.
A essere croce e delizia di tutti e tre gli ultimi tre film di Nicchiarelli è sempre lo stesso elemento: sembrano tutti Marie Antoinette di Sofia Coppola con un’altra protagonista – e un’altra interprete rispetto a Kirsten Dunst, cosa non da poco considerando il genere. La chiave espressiva ha un coefficiente di ricorsività che guarda dal basso solo Tim Burton: i montaggi musicali con colonna sonora indie/pop, i momenti affini al musical con coreografie ballate, la commistione di registri alti e bassi (in questo caso anche glottologici: pseudovolgare e un po’ di romanaccio), la forza ribelle della protagonista che incarna un’ideale adolescenziale, sono strumenti morfologici che ritornano prepotenti per la terza volta in appena un lustro e che senza la possibilità quantomeno di qualche variazione minima finiscono per risultare stagnanti, nonché di togliere spessore alla figura a cui danno forma, inevitabilmente schiacciata su una sintassi sì già collaudata ma per questo avviata verso un progressivo impoverimento linguistico.
Di questa Chiara d’Assisi, le cui versioni nel cinema italiano non ha senso mettersi a contare, quel che trasuda della novità è l’impostazione femminista che tematizza l’intera biografia narrativa del personaggio. Nella seconda parte, sicuramente più interessante, in cui San Francesco, una volta consolidata la sua popolarità, viene a patti con l’etichetta del papato per l’accettazione della sua regola monastica e si allontana dallo spirito originale dei primi album per assestarsi su sonorità più commerciali, Chiara è chiamata ad affrontare la situazione calcando la mano sulle sovrastrutture della legittimazione ecclesiale del monachesimo, rendendo evidente in più esempi come alcuni dei compromessi accettati da Francesco per salvaguardare la regola non siano altro che lo strumentario politico del potere secolare mascherato da temporale per perpetuare surrettiziamente privilegi di classe, aggirando una linea generale di comportamento che il francescanesimo rischiava di disinnescare agli occhi del volgo stabilendo un’inedita forma di uguaglianza fra uomini e donne. L’intuizione coglie un aspetto interessante e la dispiega in maniera raffinata.
L’autrice rende palese allo spettatore il fatto che Chiara vuole essere il suo film più politico, con mezzi ortodossi e altri più diretti e forse rozzi. Oltre all’aspetto sottolineato poc’anzi però la dimensione politica latita nel film, e i tentativi di valorizzarla, all’interno di una visione ben articolata ma comunque ancorata all’immaginario naïf di Zeffirelli, risultano piuttosto maldestri. L’influenza della regola di Francesco e Chiara sulla vita laica viene ampiamente sopravvalutata dalla regista, e ne deriva una discorsività ingenua e anche un po’ demagogica sul senso della rinuncia e dello schierarsi dalla parte del più debole, nonché una colpevole deproblematizzazione del legame fra forza e diritto, specie se si è scelto di percorrere quella direzione a testa bassa. Più che Francesco a questo punto magari sarebbe servito rispolverare sant’Agostino – iuris consensus anyone?
Una certa naïveté è inscritta nei codici interpretativi delle figure di Francesco e Chiara, ma se c’è una cosa che manca al film è proprio un espediente rappresentativo per conciliare la semplicità frugale e pauperistica del piano quotidiano con la presunta radicalità alla base di quello stesso sistema normativo. Quello di Susanna Nicchiarelli è un avanzare lento che da un lato costruisce la figura di Chiara con precisione e una certa complessità a livello caratteriale, dall’altro si perde in facilonerie che inseguono il superamento delle gerarchie e dei rapporti di potere fra uomini ben al di là della regola francescana per condurre il suo proprio discorso politico, condannato alla mancanza di incisività perché segnato dal tentativo fallimentare di abbinare alla semplicità dei contenuti una coincidente semplicità delle forme. Non c’è altra sfaccettatura politica oltre alle osservazioni (pre)femministe nel film se non quella a che una certa Chiara e Francesco finiscono per sembrare due leader del centrosinistra italiano alle prese con un’altra scissione.
Il prodotto finale scivola su di un utopismo infantile scentrato rispetto all’imbastitura più fine che regge Chiara per tutta la sua durata, facendone un’opera riuscita nel complesso che sbraca sul più bello, quando poteva provare ad articolare una riflessione più stringente; stesso esatto discorso che vale sia per Nico, 1988 che per Miss Marx, con qualche minima variazione. Una Chiara che sembra essersi letta un paio di capitoli di Kristeva più che essere andata ai raduni hippie con Zeffirelli non riesce comunque a far uscire Nicchiarelli dal suo confinamento autoimposto, ormai a metà fra il rassicurante e il mediocre, facendone sempre più una regista di genere e non un’autrice – impressione che viene ben riassunta dalla declamazione del Cantico delle creature nel finale, il più scolastico degli escamotage per chiudere un altro vorrei-ma-non-posso™ del cinema italiano in questa edizione.