Sembra tardi, ed effettivamente lo è, per parlare di Hikari, l’ultimo film di Naomi Kawase, ma arriva in Italia in questi giorni, di soppiatto e anche piuttosto in ritardo, essendo ormai passato un anno dalla presentazione ufficiale, avvenuta a Cannes nel 2017, in concorso. Iniziando proprio oggi invece la successiva edizione del Festival di Cannes (la 71esima), possiamo dire di esserci arrivati all’ultimo momento utile, mentre ancora sulla Croisette e nelle redazioni si continua a perdere tempo e occasioni preferendo soffermarsi sullo spacco del tal abito della tal attricetta durante la première dell’8 maggio.
Ritornando a noi, Hikari, titolo internazionale Radiance, racchiude nella bivalenza del suo significato letterale l’intera poetica di Kawase, persino nella sua sfumatura più naïf: luce e splendore intesi non come causa ed effetto, condizione di possibilità e fenomeno, ma in modo univoco, saldo. Saldi invece non sono i due protagonisti della storia; da un lato Misako (una Ayame Masaki alla prima esperienza in un film d’autore, e obiettivamente si vede), giovane donna che vive per il suo lavoro sperimentale di narratrice di film per non-vedenti, così focalizzata sulla descrizione dell’oggetto anche negli altri momenti della propria via da perdere di vista il quadro d’insieme, specie dopo la morte del padre, dall’altro Nakamori (Masatoshi Nagase, più navigato ma sempre proveniente dall’ambiente commerciale), stimato fotografo che si trova appena cinquantenne a dover fronteggiare la perdita della vista. Entrambi in lutto, attraverso l’altro iniziano un percorso per ritrovarsi, percorrendo l’usuale, seppur aurea, via crucis che la regista nipponica riserva ai propri protagonisti, le cui fermate principali sono l’accettazione del dolore, la capacità di scoprire la pienezza nella privazione e la rivitalizzazione della memoria.
A tre anni da Still the water, forse l’autentico magnum opus, e solo uno dal piacevolmente dimenticabile An, la poetica di Kawase sembra rimanere sempre fortemente vincolata a un sentimentalismo totalizzante, all’esplicitazione insistita della metafora, e alla riappropriazione del lato perduto di sé. La spina dorsale di Hikari però è di fregio differente, ergendosi sulla dialettica tra parola e immagine. Elemento che sembra addirittura eccessivamente teorico per l’autrice, e infatti sarebbe meglio codificare questo conflitto – così sensoriale, intimamente fisico – esprimendolo tramite la relazione udito/vista, che nient’altro significa qui se non altro/sé. I due binari che convergono (in una storia d’amore giustamente rarefatta) partono proprio da questo genere di simmetria: Misako non ha un’autentica dimensione autosoggettiva perché, ferita psicologicamente, si rapporta agli oggetti che vede come un oggetto a sua volta, descrivendo le determinazioni di questi e l’effetto che provocano sulla sua persona in quanto oggetto. Azione e reazione.
Basta vedere come viene calcata la mano registica su questo aspetto all’inizio del film, con una sequenza frenetica che rappresenta la narrazione della protagonista. Quando si passa al livello di realtà affettiva il film si fa tale e Misako non è più in grado di seguirla a voce. Non tanto per una questione di ritmo, quanto per il suo modo di descrivere rude, severo, autoritario. Questo mancanza, che le viene fatta da notare da Nakamori durante una “seduta”, rispecchia un bisogno di ordinare “l’inordinabile”, cui per Kawase, che sia condivisibile o meno, si può far fronte solo attraverso l’empatia, inteso come tipo di rapporto umano intimamente paritario ricreato pensando l’utopia su base dualistica. Sul versante opposto il fotografo è nell’altra fase del lutto. Il lutto è il cuore del film, come accade spesso nel cinema della giapponese, ma qui si dà nelle due facce che danno voce al vuoto, cioè la reazione alla perdita che mira a eliminare quest’ultima invano (Misako) e quella che realizza concretamente l’incapacità di reagire dinanzi a un prossimo verificarsi della stessa perdita (in questo caso, della vista, e qui si parla ovviamente di Nakamori). Solo reazione.
Nakamori, per l’appunto, fa fronte invece a una menomazione fisica ed elementare, importante per la sua identità al punto che pensa sin da subito al suicidio una volta perse le ultimissime diottrie. La salvezza per lui però rimane nella privazione stessa, nell’aprirsi di un altro mondo, anche grazie a Misako, che fa leva sulla memoria, affrontando il tema con un cambio d’approccio più spirituale. La luce del titolo non è quella salvifica di un’epifania però, né appartiene – banalmente – alla sfera amorosa, ma a quella del cinema, quella dell’immagine vitale che è sì metafisica, perché data pure dalla memoria, dalla capacità di pensiero (registico? forse) più che dalla macchina da presa. C’è questo fattore nel cinema di Naomi Kawase, forse un po’ leggero e melenso, che non contempla quella carnalità viscerale con la pellicola che spesso si trova in molti autori (si veda Sono, ad esempio, giusto per rimanere nell’arcipelago).
Ma Kawase è così: prendere o lasciare. La nostra non lesina sull’aspetto tecnico (che non passi questo!) anzi forse in quest’ultimo passo è passibile dello stesso rimprovero che Nakamori muove a Misako, a cui viene ringhiato contro di guardare allo spazio e non all’oggetto, far sì che gli altri vedano, non semplicemente descrivere. Lo si accennava prima: Kawase insiste sulla metafora, la delinea anche con della bigiotteria filmica se necessario (che rende Hikari magari impossibile da esaltare nella sua interezza, non si può non notarlo), lo fa con una regia insistente, specie con dei primi piani che avrebbero dovuto contare su espressività attoriali più talentuose, con un montaggio ipertrofico nel suo essere propositivo, e con una colonna sonora martellante. Certo, repetita iuvant: Naomi Kawase è così, adora spremere la sfera umorale fino all’ultima goccia, manca forse di senso della misura, in particolare per la concezione un po’ hippie di una purezza che è molto mortificazione, ma in fondo ci piace proprio per questo, per la sincera genuinità che incarna con i suoi film. E rimane il fatto che, nonostante la pesantezza del comparto tecnico, la fotografia nel suo essere così calcata nello scope è un vero gioiellino.