Nonostante Il filo nascosto sia stato uno dei film meno apprezzati e forse più fraintesi di Paul Thomas Anderson, l’attesa per Licorice pizza, arrivato sugli schermi quasi cinque anni dopo, ha rasentato un livello mai sfiorato per quanto riguarda speculazioni e aspettative. La produzione e le strategie di distribuzione hanno subito un fisiologico rallentamento ma la decisione di non presentarlo in anteprima a nessun festival maggiore, la scelta di due attori esordienti come coppia protagonista, e la componente nostalgica che trapelava da interviste e teaser in anteprima hanno tracciato il contorno di un oggetto misterioso; il contorno di un film in qualche maniera diverso, magari. Impressione presto smentita dalla visione: Licorice pizza è più autoreferenziale che intimista, ma fa del suo apparente minimalismo uno specchio per le allodole mentre diventa veicolo di una delle più elaborate riflessioni sull‘immagine e attraverso l’immagine da parte dell’autore.
Tanto lineare quanto disordinato, Licorice pizza sulla carta è un film di formazione imperniato sui due protagonisti e sulla loro relazione, tra crisi energetiche e nuove mirabolanti prospettive future nel milieu della San Fernando Valley del ’73. Lui è Gary Valentine – Cooper Hoffman, figlio di quel Philip Seymour che recitò in cinque film dell’amico PTA -, un attore in erba ancora liceale; lei è Alana Kane – Alana Haim, chitarrista del gruppo Haim, che vanta una decina di videoclip diretti dal regista in questione -, la svogliata aiutante di un fotografo, circa dieci anni più grande. Si conoscono durante la sessione fotografica per l’annuario scolastico, e da quel momento in poi si separeranno e si rincontreranno, il più delle volte rincorrendosi l’un l’altra, attraverso episodi meno slegati di quanto non possa sembrare che raccontano una storia d’amore tragicomica e improbabile, ma dotata di una vitalità e un anarchismo in radicale opposizione con l’erotismo algido de Il filo nascosto, nonché in grado, stagliandosi sullo sfondo, di fare da contrappunto alla disamina linguistico-visiva della transizione dagli anni ’70 agli ’80.
American graffiti, Fuori di testa, La vita è un sogno: sono influenze visibili, ed è facile riconoscere che siamo di fronte a una riedizione del classico coming–of–age–movie all’americana, ma è altrettanto ingenuo non comprendere che Licorice pizza ha molto altro da dire nonostante la mise genuina, nel momento in cui si configura come una sorta di centro tematico nel cui nucleo convergono e si mescolano moltissime tra le ispirazioni e le linee dell”immaginario di Anderson. Un racconto formativo che traccia una sincronia tra il passaggio all’età adulta di un personaggio e un cambiamento epocale che avviene di pari passo nel mondo che lo ospita non rappresenta una novità, ma il film in esame è un esempio fulgido di come questo topos possa venire esacerbato e condotto a conseguenze radicali fino a divenire molto di più. Un’opera traboccante di ipertesti non può che essere affrontata attraverso un tentativo iniziale di metterne più o meno in ordine i luoghi-chiave per “delinearne” il rizoma, o almeno è quello che cercheremo di fare con le righe che seguiranno, ovverosia discutere di Licorice pizza attraverso le sue innumerevoli connessioni ad altro ed eterogeneità interne.
Tra Bellow e Pynchon
La San Fernando Valley è anche lo sfondo di Boogie nights, ambientato nel 1977. Licorice pizza è circoscritto all’autunno del ’73, quattro anni prima dell’inizio delle vicende dell’altra Hollywood e tre anni dopo Inherent Vice. Queste tre opere formano un trittico spirituale incentrato proprio sullo spirito del tempo, su quel passaggio ’70/’80 ampiamente significativo sul piano politico-culturale, in cui l’eredità sessantottina lasciava il posto alla frammentazione del tessuto sociale che è stato il terreno di coltura del neoliberismo affermatosi da lì in poi, dopo l’esperimento cileno. Il contributo fondamentale è quello pynchoniano, che collocando il contesto di Vizio di forma nell’inverno 1969 ha voluto evidenziare come l’eponimo difetto intrinseco fosse già contenuto dalle prerogative della fase lisergica. L’adattamento (nel 1970) calca la mano su tali elementi contraddittori, spietatamente razioidi nella loro follia, tanto efficaci quanto grotteschi. Boogie nights è stato anche un tentativo lungo il binario altmaniano di illustrare il rovesciamento del libertarismo e dell’emancipazione sessuale nella reificazione del corpo, o del tentativo di superare un sistema di valori in una massiccia operazione di deregolamentazione economica della sfera oggettuale e economicistica della sfera personale, trasformando il desiderio in merce appetibile-fruibile per istituire una corrispondenza esatta fra pensiero e oggetto.
PTA pare muoversi a metà strada fra le dimensioni di lucida e patologica follia quotidiana tratteggiate da Bellow e da Pynchon. Nella rigogliosa giungla urbana, ricca di ogni bene e soluzione per le più variegate esigenze, fa capolino il fantasma della mortalità. Ogni sprazzo di energia sbiadisce lentamente dietro la patina delle luci al neon e della fede incrollabile nel progresso tecnologico, delineando una micro-necro-fisica che separa le cose, isola gli aspetti della vita, atomizza le relazioni, smembrando ogni pezzo di realtà per renderlo insignificante da quanto è reso piccolo e compartimentato. Il processo di duplice acculturazione, per dirla con Pasolini, svela le sue ipocrisie e ribalta simulacri di conquiste civili e sociali in un processo di reazione che non solo mantiene ma addirittura consolida lo status quo. Il talento, per quanto questionabile come quello di Dirk Diggler, viene fagocitato dalla macchina che alimenta, la materializzazione di ogni possibile oggetto di desiderio ha una sua catena di produzione che eccede la domanda (che viene così a sua volta prodotta). Boogie nights viene prima ma funge da ipotetica conseguenza di Inherent vice, che invece ne illustra le genesi. Un pessimismo diffuso e carnevalesco infetta i microcosmi che ci propone Anderson, riflesso delle menti dei protagonisti in ciascun film del regista losangelino; tra questi e l’ambiente che abitano avviene un interscambio continuo di influenze reciproche.
In Licorice pizza, che funge da punto di fusione e unico tratto omeostatico nel vortice della nevrastenia barocca dei film succitati, tale caratteristica viene radicalizzata. Due personaggi si inseguono e vivono mentre attorno a loro il mondo inizia a morire lemme lemme, perdendo colore e riflessi. I granulomi lasciati dalla luce sui 35mm dell’anamorfica appaiono sempre meno durante lo sviluppo diacronico, articolato cronologicamente nell’arco di parecchi giorni (attraverso episodi separati da imprecisati salti temporali), ma riecheggiante l’andamento di una sola giornata, con la luce che infatti sparisce gradualmente a partire dalla seconda metà della pellicola. I protagonisti corrono, scalpitano, sprizzano dinamismo da tutti i pori, in piena contraddizione con lo sfondo che invece, nonostante le novità introdotte (sociali, industriali, etc.), si mostra sempre più freddo. La vivacità schietta di Gary e Alana fa da contrappunto alla malattia terminale che ammorba il loro campo d’azione, come un dono humboldtiano che funge da sistema fognario per le brutture del mondo: poeti senza dire poesie, orgogliosamente inadeguati al mondo che verrà, finiscono per vivere un parossistico percorso di formazione, simile a un ultimo momento di innocenza dilatato in uno spasmo del tempo.
Quella di lei e lui è un’indulgente storia di una sconfitta inconsapevole, uno specchiarsi nell’attesa di un bacio anti-catartico, che quasi porta lo spettatore a sperare non arrivi mai, prorogando la conclusione all’infinito e congelando il momento per impedire ai due di terminare il viaggio e approdare all’infelicità. Percorrendo a ritroso il proprio percorso artistico PTA offre un affresco nostalgico come solo gli ultimi istanti prima di un apocalisse (o di qualcosa che ci somiglia) sanno essere. E si profila allora il miraggio di un’oasi per la coppia protagonista, mentre la terra delle opportunità sotto le loro falcate scoordinate fa il possibile per mantenere le apparenze e non rivelarsi un Eden alla rovescia. Ambiente e altri personaggi si perdono in secondo piano, differenti dal dinamico duo, la cui eruzione di esuberanza incarna un’ideale resistenza al tempo stesso che scorre.
Tra attuale e virtuale
La già sfilacciata trama di Licorice pizza scioglie tutti i legami che una narrazione lineare dovrebbe avere con lo spazio e il tempo. Ed evade, smette i panni di una funzione racchiusa tra due assi di ascisse e ordinate: non ci sono giorni e orari, non ci sono indirizzi o strade, solo una valle che diventa un non-luogo, fuori da temporalità e spazialità. L’immagine nel piano diventa una messa in questione dell’immagine in profondità di campo, presto svilita. Abbandonata per strada anche la cogenza di un intreccio coerente, il nuovo film di Anderson contrappone dinamismo e stasi seguendo uno schema simile; a correre, muoversi, o semplicemente a fare, ci pensano Gary e Alana, mentre al resto (anche registicamente) non pertiene null’altro che immobilismo perpetuo. L’architettura narrativa si regge facendo equilibrismo su una sottile contraddizione. Mentre ciò che è statico è confinato nella sfera temporale, quello che si muove (e dunque è vivo) lo fa al di là di essa. PTA spezza la linea retta essenziale al movimento logico-narrativo, e si concentra sulla descrizione di un’esperienza che il tempo non lo accetta, ma anzi lo sfida, non accetta il presente e pretende invece di metterci le mani, decidendo cosa è vero e cosa è falso.
I vari quadri che compongono il susseguirsi di eventi non sono collegati fra loro non più di quanto non siano connessi l’uno con i correlati simbolici e immaginifici dell’altro. Ne scaturisce una cospicua fertilità semantica. L’abbondanza di significati è resa possibile dalla decostruzione del fondamento temporale, da cui viene rimossa qualunque traccia di congruenza cronologica. Il tempo in Licorice pizza non è quindi struttura univoca che viene ricondotta alla percezione dello spettatore indirettamente, ossia come un parametro che permea i movimenti di senso, ma uno specchio che riflette sdoppiamenti e differenze in una moltitudine di realtà equipollenti. È il tempo nella sua limpidezza, attraverso un mondo che cambia radicalmente, attraverso due ragazzi che sembrano uscirne quando sono assieme, attraverso la forza ancora presente di un passato che ritorna sotto forma di nostalgia, a ricoprire il ruolo principale nel film.
Anderson tuttavia non ha nessuna intenzione di fermarsi a questo livello di archeologia filmica, il suo proposito riguarda la frantumazione della corrispondenza fra immagini attuali e immagini virtuali. Presente attuale e passato virtuale subiscono una svolta, vengono scissi a loro volta e riposizionati tramite una nuova gerarchia valoriale. Da un lato dello specchio, quello frontale, esistono Gary e Alana – sempre nella loro dualità -, e dall’altro, deformato, si accumula per strati ciò che da loro viene rifiutato. Due dimensioni che coesistono ma una acquisisce una profondità diversa, con caratteristiche moraleggianti, per certi versi più degna di altre.
In sostanza le due “tipologie” di immagini, analogiche e semantiche, non costruiscono il film compenetrandosi ma disponendosi in un senso trasversale rispetto a segni e simboli. Così la doppia dimensione spaziale (piano e campo sono sempre configurati in opposizione formale) trova un attracco combaciante nel duplice articolarsi del tempo nelle immagini (presente atemporale e passato temporalizzato). Attualità e virtualità, anziché mischiarsi, si riallineano su binari paralleli l’uno sulla verticale dell’altro. Il binomio Gary/Alana abita nel microcosmo attuale e il resto del restante macrocosmo andersoniano prende posizione sui livelli virtuali. La prima dimensionalità è quella illusoria del mondo lisergico, della promessa di autentica libertà incarnata dagli anni ’70; la seconda è quella degli anni ’80 che ospitano il collasso di tale speranza, la transizione a un’umanità postuma e atomizzata dalle sue stesse produzioni sovrastrutturali. Avviene così il passaggio dal consumo di droghe al consumo di merci, dalla ricerca di una più ampia spiritualità all’appiattimento su di una iper-oggettività totalitaria, dalla capacità di sprigionare e armare un dissenso – come fanno i protagonisti -, all’impossibilità di pensare un’alternativa realista allo status quo legittimatosi da sé – come invece fanno, esibendo una libertà solo apparente e uno spirito prevaricatore le parodie ambulanti Jon, Jack, Joel (dei grotteschi ma giocosi Cooper, Penn, B. Safdie).
Tra Salinger e Tarkovskij
Licorice pizza disdegna discretamente, decostruendolo, quel sintagma inscalfibile del cinema moderno che vuole istituita tra immagini attuali e virtuali vi sarebbe un’unità aprioristica. PTA prende il martello e fa a pezzi il concetto di image-cristal, permettendosi dunque di imprigionare il tempo nei singoli frammenti e osservarlo in un’istantanea di quasi due ore e mezza prima che scivoli via. Il film vive di immagini riflesse, specchi e frammentazioni. In un certo senso tale chiave espressiva serve a restituire una sensazione di confusione estranea allo stile di Anderson, che rinuncia totalmente alle sue composizioni taglienti – così come a tutte le cornici naturali che tanto apprezza, poiché porte e finestre non esistono: l’ultimo dei suoi universi è un autentico open world.
Uno specchio apre e chiude il film (prima della sequenza del bacio che fa storia a sé): all’inizio Gary ne usa uno per rassettarsi prima della foto dell’annuario, e alla fine Alana ascolta Joel davanti allo specchio vicino al tavolo del ristorante; noi ne vediamo il riflesso, smorto e opacizzato dalla delusione, mentre ascolta. Vetri e specchi ritornano a più riprese lungo tutto il decorso dell’intreccio con la frequenza delle prime opere di Carmelo Bene, magari senza lo stesso grado di teoreticismo, però. Più che destrutturare i corpi o le identità, come faceva l’enfant terrible della cultura italiana per impostare un film basato sul grado minimo della percezione, Anderson elabora la sua versione del cinema di Tarkovskij.
Un cinema in cui i tempi presenti e passati si compenetrano e coesistono fotograficamente come due lenti l’una davanti all’altra, permettendo quel riassetto di cui abbiamo parlato. Trai due piani temporali si allunga l’ombra di un futuro mai realizzatosi, la nostalgia per qualcosa che è andato perduto ancora prima di concretizzarsi. Le immagini si fondono e danno forma a un’atmosfera semionirica che non abbandona mai il film, fatto di movimenti difficili da cogliere perché sfocati dagli zoom insistiti e da un tono leggero, poi acuito dal sonoro attutito e sporco. L’idea di un’esperienza liminale che ristagna sulla soglia del dormiveglia è la cifra stilistica inseguita da Licorice pizza. Anderson non rinuncia tuttavia ai lunghi e mobili piani-sequenza che ne hanno contraddistinto l’autorialità, cioè non agisce sulla percezione del tempo frammentandolo (come Bene), ma dilatandolo fino a svilirne la misurabilità – accentuata dall’inattività forzosa che aggredisce il fuori campo.
Più modernista che postmoderno come sono invece le sue influenze, Anderson realizza anche un film sulla memoria di possibili alternative ormai morte e sepolte; e offre, tramite la storia d’amore di Alana e Gary, un riscatto, l’apertura a diversi mondi possibili secondo l’applicazione della modalità logica alla semantica filmica, agganciando prima e separando poi vari livelli di semiosi costruite da immagini testuali ed extra-testuali. E il sentimento diventa al contempo espiazione di una specie di diverso peccato originale (quello della modernità), e chiave di accesso a un tempo oltre il presente attuale che tiranneggia sui propri simili virtuali-finzionali. Esattamente come seconda questa prospettiva gli anni ’80 tiranneggiano sul portato immaginifico degli anni ’70. Appare chiaro che Licorice pizza assume anche il significato di un’ode alla potenza creatrice (o, se favorite, semiotica generativa) del cinema in quanto tale: un prisma che si incunea nel tempo e lo stravolge a piacere. Non si tratta di una fuga dal tempo, ma della capacità di porsi trascendentalmente rispetto ai piani di realtà e restituirgli dignità. Il discorso non è troppo dissimile dalla dialettica tra storico e possibile instaurata da Tarantino con la trilogia costituita da Bastardi senza gloria, Django unchained e Once upon a time in Hollywood, che proprio nell’ultimo capitolo raggiunge il suo apice quando il lanciafiamme di Rick Dalton “salva” Sharon Tate dalla morte attuale, in un attimo meravigliosamente folle in cui i divertiti bazooka di Miike incontrano il cervellotico «zoom back camera!» di Jodorowsky. In questo senso PTA si afferma nuovamente come un postmoderno spurio.
Stasi temporale, liminalità, questione identitaria, futuro articolantesi in terrore e nostalgia sono tutti temi che innervano la riflessione figurativa e plastica della semiotica cinematografica di Licorice pizza ma sono anche topoi ineludibili della narratologia classica, e dunque della sua narrativizzazione principe: il romanzo di formazione. Licorice pizza è quanto di più simile chi scrive possa ricordare di aver visto su schermo a un’assolutizzazione dei criteri del cinema di formazione, nel senso che da un lato porta le tematiche di cui sopra ai margini più lontani della loro capacità riflessiva, e dall’altro conduce una decostruzione lungo il vettore opposto, risalendo la china fino al punto in cui i personaggi si guardano sapendo di essere prodotti narratologici o assetti compositi in prima persona. Si tratta di un film di formazione che usa il suo stesso percorso formativo per un contro-viaggio a ritroso fino alla scomposizione in narremi della realtà; il risultato finale si può cogliere sia nella sua massima generalità che nelle più piccole specificità, realizzando la perfetta identità tra testo e ipertesto o una simmetria di coerenza equivalente fra la mise e il significato finale.
Licorice pizza è Il giovane Holden fatto pellicola, uno zenit e un archetipo della narrativa formativa. Il punto però non è tanto la crescita o il passaggio all’età adulta, ma la transizione a uno stato di consapevolezza da uno di innocenza, il transito dalla possibilità di essere fuori dal tempo alla necessità di abitare uno spazio storico finito, o dall’infinito al finito; e quindi dai (simbolici) anni ’70 agli (altrettanto simbolici) anni ’80, dal virtuale all’attuale, e via ricordando quanto già scritto. In breve, un’altra faccia della forza plasmante del cinema, nonché la realizzazione fisica del burrone della filastrocca dove tutto si perde: il cinema di PTA ti prende quando stai per scivolare sulla segale e cadere e ti fornisce una scorciatoia per tornare bambino nel momento in cui ne senti necessità, risalendo la scarpata attraverso un riflesso tarkovskijiano.
Conclusioni
Licorice pizza è la parte emotiva e nascosta dietro alla corporeità sfrenata di Boogie nights e la psichedelia noireggiante di Inherent vice, un ritaglio di spaziotempo quasi sacro in un mondo dove la solitudine è l’unico punto d’arrivo dell’esperienza di predazione materiale o spirituale – l’imprenditoria ne Il petroliere e la pseudo-filosofia di The master. Elementi che nel suo ultimo film Anderson fa ritornare attraverso la liberalizzazione del flipper e il commercio di materassi o l’aura crepuscolare che si respira attorno al cinema e al lobbismo cittadino. La non-trama però non si sofferma sull’evanescenza di questi fattori, persi negli scambi di sguardi dei due protagonisti che monopolizzano la sfera degli eventi e trasformano le storie sullo sfondo in un episodico riaffiorare discorde di sensazioni e rimasugli onirici come nel protrarsi di un dormiveglia.
Le ricorrenze del passato e dell’esperienza del regista sono uno dei fili conduttori del film: ritornano l’assenza genitoriale, la difficoltà a relazionarsi fra pari, la claustrofobia dell’ambito urbano, così come gli omaggi e i debiti che si riscontravano nei primi film (la classicità di Altman, Bogdanovich, o William Holden), in un delicato affresco che porta indietro a un tempo imprecisato (come è sempre l’infanzia). La scena della retromarcia del camion andrebbe forse interpretata in questo senso: uno scorrere all’indietro, scivolando in discesa, più guidati che alla guida, mentre sui volti si intravede più fomento infantile che reale preoccupazione. In Licorice pizza c’è una potenza che però non è intima, ma universalista, al di là della presenza di Tom Waits e Hoffman Jr. e di altri biografismi di Anderson, il quale vuole trascinare lo spettatore a credere, risucchiandolo dentro fisicamente, come quando la coppia si telefona dalle cabine e il pubblico viene sovrapposto agli altri personaggi mentre questi osservano in silenzio i due, limitandosi a sperare.
La sottile malinconia che attraversa il film però si oppone all’afflizione nichilista di tutti i film precedenti, in cui i protagonisti sono chiamati a confrontarsi con l’eredità che offrono al prossimo, ovvero sempre un niente, sabbia nel vento o neve sciolta: non resta nulla, né ne Il Petroliere, né in The master, né in Inherent vice, né in Magnolia o Boogie nights – solo rimpianti e impotenza e generica indifferenza. Mentre la pizza alla liquirizia è un attimo che dura due ore e venti, un momento talmente piccolo da non avere misura eppure dotato della forza per trascinarsi nel tempo di una vita. È la costruzione dell’agiografia di un lascito, qualcosa che nella straordinaria filmografia di PTA era stato semantizzato solo in negativo, paradigmaticamente assente, e invece per una volta affiora da dietro lo specchio facendosi carico del privilegio dell’attualità dopo tante invocazioni fumose. Scandito da allunghi affannati, Licorice pizza prima di esserne il film più personale è il film più universale di Paul Thomas Anderson, l’ennesimo capolavoro di un regista fedele a se stesso come pochi ma nondimeno tuttora innovativo, capace, incrociando l’ultima spensierata rincorsa di Gary e Alana, di apporre indiscutibilmente la propria firma sulla traiettoria del cinema contemporaneo.
Titolo originale: Licorice pizza
Genere/i: commedia, drammatico
Paese, anno, durata: USA, 2021, 133′
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Fotografia: Paul Thomas Anderson, Michael Bauman
Montaggio: Andy Jurgensen
Musiche: Jonny Greenwood
Cast: Rogelio Camarillo, Bradley Cooper, Mary Elizabeth Ellis, Alana Haim, Cooper Hoffman, James Kelley, Sean Penn, Benny Safdie, Tom Waits
Produzione: BRON Studios
Distribuzione: Universal, Eagle Pictures