Un antieroe, una damsel in distress, una missione di salvataggio suicida e una storia di ribellione e vendetta. Tutti elementi che in genere bastano per un film canonico ma che chi maneggia il cinema di Sion Sono sa essere materiale piuttosto scarso anche solo per l’incipit di una delle sue pellicole. Eppure in questo caso se li fa bastare – declinando il risultato alla sua maniera, ovviamente. Facciamo un passo indietro: Sion Sono aveva già colto l’occasione per pervenire a un pubblico più ampio collaborando con Netflix per la realizzazione di The forest of love, e in quel caso la scelta era stata quella di approfittare della cooperazione inusuale per presentare un film particolarmente introvertito imperniato su una riflessione meta-cinematografica, facendo di alcuni topoi del suo stesso cinema il soggetto principale della narrazione.

L’esordio in lingua inglese da parte del geniale regista nipponico, con l’opportunità di dirigere attori come Nicolas Cage e Sofia Boutella che, pur appartenendo a generazioni differenti, hanno spesso contribuito a conferire visibilità a progetti altrimenti al di là della portata dei radar americani, faceva presumere un analogo svolgimento cerebrale dell’opera, ma in questo caso siamo di fronte a un film dotato di un’impostazione classica in cui caratteristiche filmiche e cinematografiche non si intrecciano. Anche se con “impostazione classica”, tuttavia, non intendiamo certo asserire che si tratta di un film normale.

In uno strano mondo post-apocalittico ma pure un po’ steampunk, in cui si mescolano tratti del western americano, del chanbara orientale e del B-movie europeo tanto caro al post-modernismo anni ’90, un rapinatore anonimo – Cage – viene assoldato dal Governatore per recuperare la nipote Bernice – Boutella – fuggita dal suo “regno” (un microcosmo dorato solo in apparenza) e approdata in una terra da cui è impossibile fuggire a causa di crudeli predoni fantasma. E Prisoners of the Ghostland è davvero tutto qui: una corsa senza senso di un’ora e tre quarti che inanella una dopo l’altra sequenze sempre più folli e visivamente frastornanti. Folli nel senso letterale, visto che la logica è presto abbandonata per seguire una vena più o meno comica costruita su una base parodica, e frastornante perché tale sottile parodia prende le mosse dall’estetica di film come Mad Max: fury road oppure Drive.

Sion Sono fa più affidamento del solito sul suo DoP, che in questo caso è Tanikawa (uno dei fedelissimi, già responsabile della fotografia in Noriko’s dinner table, Love exposure, Guilty of romance, Himizu, il già citato The forest of love e non solo), incaricandolo di scimmiottare, distorcendola, le chiavi cromatiche del contrasto complementare orange & teal, o l’abuso refniano della luce al neon come abbiamo imparato a conoscerle. In un mondo anglicizzato ma impostato come fosse dentro al Giappone seicentesco tipico del jidaigeki, Sono sceglie di utilizzare i colori pastello, le tinte e i tratti grossi del teatro kabuki – assieme a maschere e costumi affini – per contrassegnare la cittadella western, spenta eppure coloratissima, illuminata da un neon spesso fuori luogo se accostato agli ambienti aperti e fortemente scenici (quelli tanto amati da De Palma, per capirci). Invece la terra straniera, un “oltre” geograficamente irrappresentabile ed etereo, incrocia una scenografia calda e dorata con un’illuminazione che definire asettica sarebbe eufemistico, visto il grado minimo sia di saturazione che di luminosità.

E se a livello estetico Prisoners of the Ghostland è così “ricercato” nella sua consapevole contraddizione, lo stesso non si può dire di un apparato eminentemente narrativo che invece consta di una sola tematica inscritta nella confusionaria trama; questa viene ripresa più volte da simboli consapevolmente espliciti, tanto che con autoironia ne viene offerta addirittura una rappresentazione gigante come l’enorme orologio al centro della Ghostland. Il conflitto tra l’America di fine Ottocento e il Giappone del periodo Edo non è solo una trovata stilistica, ma anche il fulcro di una storia che parla di sospensione e di mancanza di coordinate per orientarsi. La terra dei fantasmi, resa impenetrabile da un esercito impalpabile di vittime di una catastrofe nucleare, riecheggia Fukushima e in parte la pioggia nera di Ibuse/Imamura. E dunque prende a pieni mani dai film che Sono ha dedicato al senso di spaesamento che non scaturisce in toto ma invece, da preesistente che è, si arricchisce del terrore atomico o si manifesta attraverso di esso. Parliamo di Himizu, che ne è l’esempio più riuscito, ma anche del bistratto The land of hope, e non si distacca troppo da questo filone interno nemmeno The whispering star, affine a quella sensazione di vuoto interiore che si riflette nell’ampiezza dello spazio circostante. La paradossale claustrofobia che ne scaturisce ha trovato in ognuno dei film citati una sua dimensione particolare: in Himizu era l’indecifrabile profondità sotterranea, in The land of hope l’angosciante spazio aperto forse inquinato, e in diretta contrapposizione con esso il vuoto cosmico di The whispering star; e per finire questa sorta di aldilà di Prisoners of the Ghostland: uno spazio dove il tempo non solo si è fermato, ma si rende proprio necessario immobilizzarlo perché il suo ritornare a scorrere equivarrebbe al ripetersi della catastrofe.

Da questo miscuglio di idee nasce un film minore (viziato da una sceneggiatura scritta da persone che non sono Sion Sono), coerente con se stesso e collocabile nella girandola concettuale del regista, ma in una certa misura diverso, più orientato a rivelarsi con un divertissement puro e caciarone, desideroso più volte di ribaltare tutto quanto per aria e trascinare lo spettatore in una spirale caotica, senza quel particolare gioco di incastri interni che rende unico lo stile dell’autore giapponese. In sostanza sembra a tratti di avere a che fare con un film di Takashi Miike, in cui è impossibile non notare una divisione netta fra i momenti di svolgimento narrativo, quelli di iperviolenza spettacolare e quelli di natura più astratta. Tutto ciò è perfettamente in linea con la carriera di un regista che da qualche anno, conclusa una fase stupenda della propria carriera, deve decidere che direzione prendere, e con la natura mista e ibrida del risultato finale, a ogni modo mai troppo sopra le righe, con una Nicolas Cage nemmeno così eccessivo, che fa della capacità di mediazione fra istanze eterogenee la sua chiave principale.

Un film medio, dunque. Ma un film medio di Sion Sono rimane comunque decisamente diverso dalla media.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci qui il tuo commento!
Inserisci qui il tuo nome