A poco meno di un anno dalla sua prima apparizione nel panorama cinematografico internazionale, In un giorno la fine (così era il titolo, allora), approda anche in sala, ora però come The end? L’inferno fuori. Prodotto dai Manetti con il contributo di Rai Cinema, una vera e propria distribuzione capillare – a cura della 01, dettaglio da non sottovalutare – si vedrà a partire dall’inizio dell’anno prossimo, sia nei cinema che, successivamente, in home-video: queste poche proiezioni ferragostane sono solo un antipasto.

Un antipasto che certo promette bene. Di fatto stiamo parlando del primo film full-lenght con tutti i crismi di Misischia, regista giovane e talentuoso finalmente emerso. Dopo tanti interessanti corti e mediometraggi negli ultimi dieci anni L’inferno fuori rappresenta un debole ma vivo segnale di movimento da parte del cinema indipendente italiano, quello che non ha paura di osare – specie in una situazione bloccata come quella odierna – o di mostrare e giocare con i propri limiti, in primis quelli di budget. Stretto come il cordone della borsa è anche il nostra protagonista, un cinico e arrivista consulente economico di una grande azienda – Claudio Verona, interpretato da Alessandro Roja – che rimane bloccato in ascensore tra due piani mentre si reca in ufficio. Questo da prigione improvvisata diviene però il suo rifugio, quando l’edificio viene raggiunto da un virus rilasciato inavvertitamente a Roma che trasforma le persone in bestie incapaci di ragionare e desiderose di sangue.

A partire dal classico canovaccio del film di zombie e/o infetti, Misischia crea un thriller horror che rispetta tutti i canoni tipici ma fa delle sue limitazioni, solo in parte autoimposte, i punti di forza della pellicola. Eccezion fatta per le sequenze iniziale e finale, tutti gli ansiogeni 100′ del film si sviluppano all’interno dell’ascensore di cui sopra. In un crescendo di claustrofobia il banale problema tecnico non si traduce più in irritazione ma prima in un sincero terrore e poi nella salvezza di Claudio. Le porte bloccate lasciano le vesti della coincidenza grottesca per assumere presto il ruolo dello spiraglio che mette in correlazione fra loro Claudio, gli infetti e lo spettatore, sovvertendo il consueto dinamismo delle pellicole di questo tipo. La scelta del regista è quella di ribaltare i rapporti di forza fra le parti in gioco fossilizzandosi in un unico spazio, fattore su cui si erge la struttura del film. Il talento del giovane autore romano (possiamo già definirlo tale? forse sì, sulla fiducia) è infatti la chiave che permette a In un giorno la fine (o come più vi pare opportuno chiamarlo) di essere molto più che un esperimento, in questo gioco pieno di passione per il cinema sul tema dello spazio. Un cubicolo di qualche metro quadro viene (teoricamente) disassemblato minuto dopo minuto, aprendosi a un’infinità di dinamiche fisiche nuove, come il soffitto dell’ascensore o la fessura che dà sull’esterno, il contatto con gli infetti che cercano di infilarvisi o l’insperato aiuto prima della stagista e del poliziotto Marcello, trasposto sullo schermo da un grande Claudio Camilli.

A partire da questa natura ibrida in grado di mescolare diverse ispirazioni (su tutte 28 giorno dopo di Boyle, l’ultimo Sekely e il sempreverde Bava), il discorso di Misischia va a toccare senza troppi fronzoli anche il cinema di Romero, scegliendo un personaggio che a prima vista suscita solo odio profondo (tradisce la moglie, tratta male la stessa insieme a tutti i “subordinati”, vede le colleghe solo come oggetti sessuali, raggira le persone per incrementare i profitti) traslando in chiave italiana le figure contro cui il maestro americano si scagliava. La sua bruttezza inizialmente non viene scalfita dall’allarme generale, ma poi le orde di violenza e morte lo fanno definitivamente crollare, mescolando il sangue dei sui vecchi collaboratori, ora ridotti e carne marcia, alle lacrime ipocrite del senso di colpa. Il lavoro svolto su Verona mette a nudo l’immagine dello yuppie contemporaneo, carrierista e venale, il cui credo non è, afferma Misischia con forza, poi così lontano da quella legge del più forte che si manifesta con il cannibalismo (in senso lato), perfettamente parallelo alla furia cieca degli infetti (nel senso più letterale, questa volta).

L’assoluta fede del protagonista nei confronti dell’accumulo viene dunque brutalmente stroncata dai limiti ben precisi della prigione/safe-room in cui l’ascensore si trasforma dopo pochi minuti, costringendolo quinidi a vivere in rapida successione una serie di momenti topici dinanzi ai quali la sua attitudine alla prassi, la sua prontezza, viene rimpiazzata da una totale inadeguatezza, sperimentando in poco tempo situazioni diverse che fanno il verso appunto ai topoi dello horror classico, dalle copiose quantità di sangue di cui non tollera la vista ai momenti di raggelante umorismo – quel “come cazzo si chiamava questa?” con cui maledice se stesso per non riuscire a ricordarsi il nome della stagista a cui deve chiedere aiuto è un geniale punta di fantozziana ironia in un contesto totalmente altro.

The end? L’inferno fuori quindi non sarà quindi un film originale in tutto e per tutto, ma di inedito indovina espediente e messa in scena, che non è mai poco, specie se rafforzati da una regia quadrata ma efficace, nella semplicità della quale si fa strada – vale la pena ripeterlo – il talento di un giovane regista pieno di voglia che centellina le chicche visive che tiene un passo ritmato senza mai muoversi di un passo. Movimenti di macchina precisi, E-shots sbollati dall’esterno con il grandangolo per deformare lo spazio intorno all’ascensore ed eleganti piani sequenza sono il ricco repertorio a cui attinge Misischia senza mai perdere il filo della narrazione, tenendo altissima la tensione, invece. Per lo scopo che si prefiggeva, il film è più centrato che mai, è gestito alla perfezione, e, a parte qualche scena troppo caricata (si tratta pur sempre di un “mezzo esordio”) e una struttura veramente classica potrebbe veramente andare a costituire un tassello fondamentale, insieme a pellicole come Lo chiamavano Jeeg Robot e Beautiful things, per l’inizio di una “rinascita” del cinema italiano indipendente o di genere. Una visione al cinema la merita senza dubbio alcuno.

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