Nel periodo di massimo fulgore del cinema portoghese recente, connotato da un ricambio generazionale annoverante personalità numerosi e promettenti, João Botelho, l’ultimo dei grandi capostipiti del cinema novo, ribadisce l’importanza e l’eredità attuali della scuola della tradizione lusitana. La vecchia generazione ha visto assottigliarsi i propri ranghi per cause naturali: de Oliveira, Monteiro, Rocha, Lopes, Telles, cinque manifesti di un cinema dalle radici comuni ma al contempo segnato da profonde differenze, hanno comunque lasciato un terreno fertile a quanti ne seguiranno i passi; i primi sperimentatori a venire in mente oggi sono Miguel Gomes (di cui è da poco disponibile The Tsugua diaries, un film pandemico à la Wenders), João Pedro Rodrigues (un piccolo e prolifico Lisandro Alonso), o il duo formato da Pinto e Leonel (genitori dell’a dir poco hardcore Ethos pathos logos), e pure le fresche matricole Pedro Pinho e José Pedro Lopes meritano menzione.
A metà del guado rimangono modelli geniali ma forse ardui da prendere a riferimento, come Pedro Costa e Rita Azevedo Gomes, o dulcis in fundo, per l’appunto, João Botelho. Il più portoghese di tutti, restio a sconfinare in territorio francese come i colleghi perché legato alla lingua e ai modi del cinema lusitano, con la sua lentezza ponderata e la sperimentazione formale necessariamente sottile. Per certi versi il più tradizionalista del gruppo, per altri lo sperimentatore più cervellotico: il Chris Marker della situazione, abbastanza chiuso da donare una compattezza unica alla sua quarantennale carriera e sufficientemente folle da (provare ad) adattare Pessoa. E quando non basta adattare Pessoa, perché non tentare di metterlo in scena come personaggio? Per questo ci siamo concessi il vezzo di un breve eppure ampolloso recap dei protagonisti del cinema portoghese degli ultimi cinquant’anni, cioè perché Botelho con O ano da morte de Ricardo Reis va a sondare il mezzo secolo ancora prima, pescando nel calderone di un sentire comune che lega i nomi citati: la storia del Portogallo agli albori del secondo conflitto mondiale e chi quella temperie l’ha respirata o interpretata.
Il film in questione è un adattamento de L’anno della morte di Ricardo Reis, uno dei romanzi più sofisticati di Saramago, il cui escamotage narrativo è rappresentato dal dono della vita a Ricardo Reis – Chico Díaz -, l’eteronimo neoclassicista di Pessoa, di ritorno a Lisbona nel ’36 da un esilio volontario in Brasile, in seguito la morte dell’ortonimo. Durante questi pochi mesi, il rapporto tra “l’amabile reazionario” e il suo creatore si ribalta quando il secondo inizia ad apparire al primo come un fantasma, scambiando le posizioni e permettendogli, attraverso una vita fatta di carne e non solo di idee, di aprire uno studio medico, innamorarsi di due donne (tra cui la musa Lídia – Catarina Wallenstain), testimoniare il momento più declinante della civiltà occidentale. Come un romanzo di una ipotetica finis Lusitaniae, Reis si fa testimone dello scoppio della guerra civile spagnola e della definitiva ascesa di Salazar, fornendo un esempio romanticamente titanico dell’autentico anarca jüngeriano, capace di prescindere da ogni contestualizzazione sociale o dialettica con il potere.
Ripescando il b/n del più nero dei noir e l’utilizzo insistito di contrasti o riflessi per evidenziare con costanza il tema della falsa simmetria, dal soggetto iniziale il regista recupera soprattutto l’aspetto linguistico e lascia andare quello precipuamente storico: il risultato è un lavoro in cui una miriade di intersezioni si tengono in equilibrio acrobatico facendo da corpo a un discorso esuberante, provvisto di fine letterarietà ma anche di preminente ostilità verso la gestione filmica dei tempi. L’anno della morte di Ricardo Reis secondo Botelho è un’anticlimax fatta e finita. Una narrazione che, come il suo protagonista, si muove per schivare le due domande fatali: dove e perché. Sia in Pessoa che in Saramago, Reis è una sorta di non-soggetto, un uomo che, più che vivere, preferisce lasciarsi vivere, permettendo allo spettacolo del mondo di attraversarlo da parte a parte con spirito epicureo. Nella riduzione di Botelho l’insofferenza del protagonista rispetto al dispiegarsi della storia viene lasciata sullo sfondo, mentre è enfatizzata la totale mancanza di azione e sintonia logico-meccanica con il contesto spaziale attorno a lui. Reis è lo spettatore del naufragio blumenberghiano, per lui non conta agire, al punto che abbandona lo studio e si accontenta di vagare per lo hotel Bragança, abitandolo (infestandolo) come un fantasma. Ricardo vuole invece sentire prima di agire, essere ricettivo più che proattivo, pensare e sperimentare sensazioni ed emozioni. Quasi prigioniero nella sua natura di pensiero di Pessoa, ora che ottiene esistenza autonoma è lui a trasformare il poeta-padre in un fantasma di sé, poiché vorrebbe esistere nel senso letterale del termine: proiettarsi fuori da sé, subendo il mondo anziché alterandolo, ovvero pensare e non essere pensato. Voluntarismo e despreocupação.
Stufo allora di essere “pensiero che qualcuno pensa, sogno che qualcuno sogna”, ne viene messa in risalto l’abilita percettiva che filtra la realtà e destruttura le forme e i movimenti. Parallelamente a Chico Díaz, la vera protagonista del film è la costruzione della scena previo incastro controintuitivo di effetto speciale e scenografia, ossia alterazione e costruzione naturale dell’immagine. Tale tonalità si protrae per l’intera durata della pellicola, modulandosi quantitativamente, affondando i denti nell’occhio dello spettatore solo in certi momenti decisivi (quelli in cui è presente la musa Lídia) e sfumando gradualmente sullo sfondo negli altri, come a sfidare lo sguardo del pubblico a scovarla. In sintesi, Botelho sfrutta il b/n per creare un’atmosfera onirica e sospesa nel senso teatrale del termine – la sospensione di Artaud -, e, con ampio uso di inquadrature appena sbollate o distorte (specie dal basso), fa scartare di lato la sua rappresentazione rispetto a un canone normalizzante. Se l’obiettivo è creare una giustapposizione di idee, ad esempio quando Ricardo legge una lettera di Lídia, allora questa appare su una metà dello schermo, in primo piano rispetto all’amato in figura intera, recitandone il testo simulandone la lettura; e fin qui, trattandosi di espediente codificato, non c’è nulla di peculiare, però Botelho non solo ci impone la presentificazione artefatta dell’immagine di lei, ma colloca l’interprete a un passo dalla mdp, sfruttando la prospettiva naturale per simulare l’effetto dissolvenza (poi richiamato dai contrasti vividi e dalla corposità della fotografia). Viceversa in scene più lineari si decide di fare leva su una post-produzione che affiora consapevolmente in superficie, palesando con gratuità la finzione filmica, per scacciare via anche solo l’illusione di una normalità raffigurativa. L’insistenza su una chiave stilistica simile serve a far collassare su se stessa la bidimensionalità reale/onirico in un cortocircuito che erutta infiniti mondi possibili. Ricardo Reis è un sogno che sogna chi l’ha sognato, riflesso di un riflesso di un riflesso e via andare fino al parossistico regressus in infinitum borgesiano – tanto che in Saramago questi interagisce spesso con Herbert Quain.
E O ano da morte de Ricardo Reis è un altro esempio di un film che vive di immagini riflesse, evocando più gradi di finzione, di doppi diversi che escono dalla relazione con l’immagine originale o originante e desiderano costruirsi un’identità propria. Come in Sartre, l’oggetto si appropria di una dimensione coscienziale reificando l’altro, facendolo suo oggetto – un oggetto del sogno e non più dello sguardo. Un aspetto centrale del film, ribadito dall’uso pesante della fotografia, riguarda in questo senso la percezione del protagonista nei confronti del mondo. Essa è sempre sfalsata in qualche modo rispetto alla realtà della tropistica visiva attinente al cinema, o nei modi che abbiamo citato poco sopra o mediante l’insistenza di scenari – in grande maggioranza le sequenze sono in interni angusti – illuminati da una sola fonte luminosa, con il presumibile compito di seguire lo sguardo di Reis o suggerire una via di fuga in senso prospettico, in modo da far assumere a ogni immagine un’aura gelida. Il gioco di chiaroscuri afferma lo scontro tra sognante e sognato (causa-effetto), e con esso la sacertà del secondo rispetto al pensiero sovrano del primo. Il Fernando Pessoa contro-eteronimo di Ricardo Reis è deformato e spogliato delle sue peculiarità, a partire dall’aspetto fisico (l’interprete Lima Barreto è appositamente opposto all’iconografia usuale) fino ad arrivare alla sua riformulazione a seconda delle circostanze: più fantasma dickensiano (il regista adattò Tempi difficili nel 1988) che autentico ortonimo, il paffuto e baffuto spettro si svela il deuteragonista della vicenda mentre aiuta il protagonista a orientarsi in una realtà travestita da esperimento narrativo.
Botelho, letterato come pochi altri cineasti, riesce a rendere, pur stravolgendone tutte le caratteristiche, la stessa capacità evocativa del romanzo quando parla di intersezioni. Un concetto caro proprio a Pessoa e che ritorna quando il poeta – quello vero, non quello del libro o del film – parlava di Lisbona come quel luogo in cui il mare termina e la terra attende, uno Zwischen in cui nascerebbe il concetto stesso di Occidente. Allo stesso modo romanzo e film si svolgono in un non-lasso temporale indefinito sospeso fra la vita e la morte, in quello iato che si apre proprio fra la morte precoce di Pessoa e il soprappiù di vita di vita concesso a Reis, come se la moira Atropo nel momento topico avesse deciso di mettersi in malattia. E la portata della traccia intertestuale ha peso uguale sia nel lavoro scritto che in quello filmato: i dialoghi sono scambi non tra personaggi ma trai testi di cui sono protagonisti, le loro stesse vite (siano esse vere – gli autori – o false – i personaggi) sono testi a cui il dispositivo narrativo ha fornito una verità in un cosmo inafferrabile e altrimenti menzognero. Nell’intreccio di una finzione onnipervasiva, l’interazione a spirale fra sognatori e sogni che a loro volta sognano è forse il modo più penetrante per comprendere il movimento della storia e individuare la dignità di un uomo.
L’anno della morte di Ricardo Reis stabilisce il suo perno nel rapporto lettore/letto, a partire dalla coppia Reis/Pessoa fino a quella Saramago/lettore in cui il secondo è chiamato metaletterariamente e riconoscersi come co-costruttore della significazione del testo in quanto tale, calandosi in quel nuovo ruolo sancito dalla narrazione. La semantica dell’adattamento di Botelho così germina nello scambio tra visibile e invisibile, in/fuori campo, come cifra espressiva della collisione tra reale e immaginario che intreccia irrimediabilmente l’uno con l’altro. Un’operazione che, mutatis mutandis, è affine a quella dumontiana del trittico Flandres/Hadewijch/Hors Satan, seppur meno potente sul piano generale. La dialettica fra autore/fruitore annega in quel vortice di astrazioni che costituiscono i molteplici livelli di questa catena di opere, indispensabili l’una per l’altra e figlie le une delle altre in un albero genealogico confuso e incestuoso, esattamente come le relazioni fra personaggi, tutti soli come abitanti di universi paralleli reciprocamente isolati, con soltanto pochi punti o attimi di convergenza.
O ano da morte de Ricardo Reis è un film tanto derivato quanto derivativo, nodo intricato formato da una serie di fili cinematografici, letterari, storici, in cui primeggia la riflessione sulla finzione caotica che diventa verità solo se innervata dalla narratività, mentre viene lasciato sullo sfondo come questa stessa lettura possa essere applicata alla contrapposizione tra storia e invenzione, che poi è la punta di diamante del romanzo – un romanzo storico in senso postmodernista – il cui crepuscolarismo era ben allegorizzato dalla pioggia battente per tutti gi otto o nove mesi dell’antiparto di Ricardo Reis. Al netto del fatto che lo stile narrativo di sussurri monocordi ininterrotti scanditi solo dalla virgola di Saramago è inadattabile, Botelho ha però l’ardire di provare a restituire l’uso della frammentazione formale in modo da aprire una conca che funga da ricettacolo per l’innesto viscerale di citazioni e formule. Reis compone le sue odi mentre pensa, passeggia, parla con altri, senza soluzione di continuità con ciò che si svolge attorno a lui, in quanto a suo modo di vedere vivere e poetare vanno di pari passo come acqua e recipienti; allo stesso modo Saramago approfitta del “massimalismo indiretto” della sua prosa per accogliere svariate citazioni pessoiane, il cui corpus poetico riecheggia tra le righe del familiare marasma confuso dove si fondono discorsi e descrizioni o prima e terza persona, invitando o sfidando il lettore a riconoscerle, celate con sotterfugi criptici o accessibili; allo stesso modo Botelho inserisce, nel pieno rispetto della coerenza dello svolgimento della componente espositiva dell’opera, alcuni riferimenti fisici alle tematiche delle medesime odi di Reis (gli scacchi, le orme, la lanterna) o riprese verbali di queste nelle dichiarazioni all’amata Lídia (le formule “deixemos” o “ignoramos”) o le considerazioni di Saramago negli incontri con il fantasma di Pessoa (il tema del viaggio infinito, l’immagine del sorriso a mezza bocca), chiudendo così il cerchio dell’ibridazione.
O ano da morte de Ricardo Reis è un film difficile che vive (come Pessoa?) attraverso cose e persone altre da sé, al contempo troppo pregno di significati per rappresentare un divertissement decostruzionista e troppo disarticolato per attribuirgli una sincera potenza d’impatto. Un film da camera e naturalmente predisposto a una visione intimista, da guardare più volte anche solo per scoprire un dettaglio, una citazione, un collegamento, un raccordo sfuggiti alla prima o seconda visione. Difficile come Filme do desassossego, o legittimamente un po’ meno, forse, ma comunque impossibilitato a trovare una degna conclusione a questa rigogliosa esperienza visivo-concettuale se non con un calco preciso del materiale originale, trovando la spinta centrifuga finale nella candida equiparazione tra passato e presente, avvalorata da quell’unica scena in cui ritorna il colore. Difficile come un certo tipo di bel cinema che è tale proprio perché un po’ nascosto e un po’ macchina pigra che vuole tirare in ballo lo spettatore più di quanto il buonsenso consigli di fare e intimandogli un certo bagaglio di nozioni antecedenti e prerequisiti per svelarsi in tutta la sua difficoltà. Non è un grande affare, ma per fortuna qui non stiamo parlando di affaccendamenti ma di un gran bel film che fa esattamente quello che un adattamento deve fare: declinare il campo del possibile aperto dall’opera di partenza, arricchendola.
Titolo originale: O ano da morte de Ricardo Reis
Genere/i: drammatico, storico, sperimentale
Paese, anno, durata: Portogallo, 2020, 129′
Regia: João Botelho
Sceneggiatura: João Botelho
Fotografia: João Ribeiro
Montaggio: João Braz
Musiche: Daniel Bernardes
Cast: Chico Díaz, Victoria Guerra, Luís Lima Barreto, Hugo Mestre Amaro, Rui Morisson, Gustavo Vargas, Catarina Wallenstein
Produzione: Ar de Filmes
Distribuzione: NOS